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n. 3 / luglio 2013

Prima della "Milano da bere". Memorie della Scighera

 

 

Aldo Vassallo

 

Degli anni settanta la prima cosa che mi viene in mente è che ero giovane. E a Milano c’era ancora la nebbia, ma di quella fitta, la “scighera”, che il milanese sente quasi come un manto che lo protegge e lo rende invisibile al mondo circostante. Non c’è più adesso la nebbia, spazzata via dal riscaldamento cittadino. E nemmeno i comodi e civili vespasiani (per chi se li ricorda). E c’erano anche pochi supermercati, la spesa si faceva nelle botteghe e i centri commerciali erano ancora di là da venire. E nei pochi supermercati non c’erano i salvatempo, forse perchè di tempo ce n’era ancora in abbondanza.

Son stati anni cupi a Milano, gli anni settanta. La sera tardi per le strade non c’era nessuno, solo sbirri, malavitosi, puttane e gli ancor pochi tossici che si raccoglievano intorno a quei quattro baracchini sparsi per la città che vendevano bistecche, salcicce e birra per tutta la notte, come falene intorno a una lampadina accesa. Spesso i ristoranti avevano la porta chiusa a chiave per paura delle rapine e bisognava suonare per poter entrare, perché erano gli anni di Vallanzasca, delle rapine e dei sequestri di persona; e di Turatello che controllava bische e prostituzione. E da lì a poco sarebbe arrivato Epaminonda che con la strage della Strega di via Moncucco avrebbe spazzato via la concorrenza e per cinque anni sarebbe stato il capo indiscusso della criminalità milanese, inondando la città di cocaina a livello industriale. Malgrado questo clima da coprifuoco, c’era un gran fermento culturale. Il Piccolo Teatro diretto da Giorgio Strehler presentava lavori che andavano da Goldoni a Antonin Artaud, da Pirandello a Shakespeare. C’erano cineteche e cinema d’essai. C’era La Comune di Dario Fo e Franca Rame alla Palazzina Liberty con i loro spettacoli di grande impatto politico ma anche di recupero della cultura popolare, “povera”. E le serate musicali alla Sala Verdi del Conservatorio dove ho avuto la possibilità di ascoltare grandi musicisti come Arturo Benedetti Michelangeli e Maurizio Pollini. E poi lo spettacolo annuale di Gaber al teatro Lirico a cui io e i miei amici non mancavamo mai.

Cosa sia rimasto di tutto ciò non lo so. Manco da Milano da molti anni, ci torno sporadicamente a visitare ciò che resta della mia famiglia e qualche amico che mi è rimasto, ma non mi riconosco più in questa città stravolta da edifici orrendi e inutili, sporca e caotica, che ha annichilito i suoi quartieri più autentici trasformandoli in salotti per turisti e yuppies rampanti. Sto diventando vecchio.

Quello dei ’70 è stato un decennio segnato soprattutto dall’inasprirsi del confronto politico e di piazza, ma anche dalla nascita dei centri sociali e dai tentativi di creazione di spazi alternativi. Ricordo con piacere l’esperienza e la breve vita di Macondo, il primo centro culturale alternativo di Milano aperto da Mauro Rostagno nell’ottobre del ’77 e chiuso con la risibile accusa di spaccio di sostanze stupefacenti nel febbraio del ’78. La scusa fu l’emissione e la distribuzione nel locale di facsimili dei biglietti del bus che al posto della dicitura “vale una corsa” recitavano “vale uno spino”. Un’ovvia e ironica provocazione, subito sfruttata dai perbenisti di destra, centro e sinistra e dalla questura per accusare di spaccio i gestori del centro. Accusa ridicola ma efficace, visto che raggiunse lo scopo prefissato. E anche i festival di Re Nudo al parco Lambro che scimmiottavano Woodstock e raccoglievano tutti i maggiori musicisti alternativi del panorama musicale italiano, dagli Area dell’incommensurabile Demetrio Stratos alla PFM, dagli Stormy Six a Battiato, e rappresentarono all’epoca un grande momento di liberazione individuale e collettiva. Ho partecipato a tutti e tre i festival, anche se i gruppi “ufficiali” della sinistra (di cui ero ancora parte) li considerava solo dei megaraduni di fricchettoni sballati. Ricordo l’ultimo, nel ’76. Ci sarà stato mezzo milione di persone, ma fu un vero casino con scontri tra autonomi e altri gruppi della sinistra e saccheggi (o meglio “espropri proletari”) nei negozi della zona.

Re Nudo al Parco Lambro, 1976

Negli anni settanta io andavo al liceo, in una scuola che era uno scherzo: non c’erano aule, non c’erano banchi, fino all’inizio dell’anno scolastico non si sapeva nemmeno se ci sarebbe stato l’edificio in cui mettere i banchi, e se sì, dove. Ma ogni anno, grazie alle lotte degli studenti (cioè noi), dei genitori e degli insegnanti, si riusciva a rimediare, anche se questo significava doversi alzare a ore antidiluviane e prendere due o tre mezzi pubblici per arrivare a un edificio dall’altra parte della città. Insomma, per anni il mio è stato un liceo itinerante e nomade, come altre scuole a Milano e in Italia. Gli studenti italiani nei ’70 erano l’archetipo dell’attuale precario. Già allora la scuola superiore era considerata un’area di parcheggio per futuri disoccupati, anche se conservava, soprattutto grazie allo sforzo e all’impegno individuale di molti insegnanti, una parvenza di sistema educativo. Già allora si lottava per il primato dell’educazione pubblica sulla privata, soprattutto quella in mano al clero che riceveva fior fior di sovvenzioni dallo Stato a scapito delle esigenze di ulteriore investimento nella prima. Non sapevamo allora che il peggio era ancora di là da venire.

Mi sentirei di paragonare la situazione sociopolitica di quegli anni in Italia, di cui Milano era la cartina tornasole, alla bocca d’un vulcano colma di magma ribollente da cui eruttano con frequenza getti di lava. Gli episodi di violenza politica si susseguivano a ritmo sostenuto e son poi proseguiti in forma sempre più radicale nei primi anni ’80. Nel ’73, in un’Italia ancora ferita dalla strage di Piazza Fontana, un agente di polizia ammazzò Roberto Franceschi davanti all’Università Bocconi, sparandogli alla testa nel corso di una manifestazione degli universitari ai quali il rettore aveva negato l’uso dell’aula magna concesso poco prima. All’epoca avevo 13 anni e andavo ancora alle medie inferiori. Il giorno dopo volli partecipare al corteo di protesta. Era un corteo che raccoglieva una fiumana immensa e fu il primo a cui presi parte, unico del mio istituto. Al liceo entrai nel Movimento Studentesco e in breve ne divenni il responsabile nella mia scuola. Allora tutti gli istituti superiori in Italia erano in fermento e Milano era la città capofila nella contestazione. Manifestazioni, occupazioni di scuole e scontri di piazza con la polizia e soprattutto con i fascisti del Fronte della Gioventù e di Avanguardia Nazionale erano all’ordine del giorno e si respirava un’aria di incombente cambiamento che non ho mai più sperimentato nella mia vita. Noi si girava sempre rasente i muri la notte perché non si sa mai chi ti capitava d’incontrare, e si evitava di passare da zone come San Babila e Corso Monforte, così come i fascisti si guardavano bene dall’avvicinarsi all’Università Statale. A volte la sera, mentre ero a cena con i miei, mi telefonavano perché c’era qualche macchina di fascisti in giro ad attacchinare e bisognava farli smettere. Allora mi infilavo la Hazet 36 in un’asola che mia madre, ignara della sua funzione, mi aveva cucito dentro l’eskimo e scendevo al portone dove saltavo nell’auto con i compagni in attesa e si partiva per giri interminabili nel quartiere. Solo una volta beccammo un gruppetto con un’utilitaria, secchi, penneli e rotoli di manifesti, ma appena ci videro mollarono tutto a terra e se la filarono. Nel ’75 fu la volta di Sergio Ramelli del Fronte della Gioventù a essere massacrato a sprangate sotto casa da (si disse) appartenenti ad Avanguardia Operaia. Neanche un mese dopo un membro del FUAN sparò tre colpi di pistola per difendersi da un assalto alla sua auto durante un volantinaggio e centrò con un proiettile in faccia Claudio Varalli, lasciandolo morto sull’asfalto. Il giorno dopo (era il 17 aprile e a Milano c’era aria di primavera) ci fu la più grande manifestazione studentesca che io ricordi, si parlava di 120.000 partecipanti. Tutti i gruppi avevano allertato i rispettivi servizi d’ordine per evitare provocazioni. La folla dei manifestanti era immensa e si estendeva dall’Università Statale a Piazza Cavour. Da lì il corteo si diresse verso Corso XXII marzo con il chiaro intento di assalire la sede provinciale dell’MSI di via Mancini, perennemente difesa da un reparto della Celere, da dove partivano le squadracce di picchiatori del Fronte della Gioventù (tutti quelli della mia generazione ricordano bene il sanbabilino Mammarosa) e distruggerla. In Corso XXII marzo il corteo si trovò faccia a faccia con la polizia schierata a difesa dei fascisti. Cominciarono gli scontri e le cariche dall’una e dall’altra parte si susseguivano senza soluzione di continuità. Durante una fase di ripiegamento verso corso di Porta Vittoria vidi passare una colonna di camion e blindati diretta in Corso XXII marzo e sentii degli spari provenire dai mezzi. Non so se sparassero lacrimogeni o altro ma sicuramente sparavano ad altezza d’uomo. Seppi subito dopo che uno degli automezzi aveva investito e schiacciato Giannino Zibecchi, militante dei Comitati Antifascisti (CAF), spappolandogli la testa sotto una ruota.

I funerali di Giannino Zibecchi a Milano – aprile 1975

I giorni seguenti furono giorni di fuoco per la città e per il Paese, con un susseguirsi di manifestazioni, scontri e assalti alle sedi dell’MSI. Lo scontro politico si stava facendo sempre più aspro. Nel maggio del ’74 c’erano stati l’attentato di Piazza della Loggia a Brescia e in agosto dello stesso anno quello dell’Italicus a San Benedetto Val di Sambro; la strategia della tensione volta a frantumare e distruggere il movimento studentesco e operaio al di fuori del controllo del PCI era in piena attuazione. Quattro anni prima erano nate le Brigate Rosse ed erano iniziate le prime gambizzazioni.

E si arriva al fatidico ’77... Il movimento, frammentato in varie organizzazioni e groppuscoli spesso in lotta tra loro, aveva perso la sua coesione, e soprattutto era nata Autonomia Operaia, che fiancheggiava apertamente le BR e Prima Linea e raccoglieva tutti i cani sciolti della sinistra exptraparlamentare. Io stesso formai un collettivo autonomo nel mio istituto dopo essere uscito dall’MLS per divergenze politiche. Lotta Continua s’era sciolta nel ’76 e buona parte dei suoi aderenti era confluita nell’autonomia, dove erano anche spuntate le prime armi da fuoco. Diversi membri dei collettivi autonomi più oltranzisti (i famosi “fiancheggiatori”) avevano una pistola nascosta da qualche parte. Una di queste sparò in via De Amicis il 14 maggio del ’77 durante scontri tra autonomi e polizia tra i più violenti cui abbia assistito in vita mia, colpendo e uccidendo un agente della celere, Antonino Custrà. Ormai Milano non era più il centro della contestazione che s’era spostato a Bologna sotto l’egida di Radio Alice e di Franco Berardi, detto Bifo. Era cominciato il periodo “creativo” della protesta giovanile, carico di entusiasmo, aspettative e iniziative assai meno politicizzate rispetto agli anni precedenti ma non per questo meno politiche. Non sapevamo allora che quello era solo l’inizio della fine...

Gli scontri in via De Amicis

La radicalizzazione dello scontro politico alimentata dalla strategia della tensione raggiunse il suo culmine con il rapimento e la successiva eliminazione di Aldo Moro da parte delle BR nel ’78. Dopo il rapimento a Milano si viveva un clima da guerra civile. La città era presidiata da polizia e carabinieri, ci furono molte retate tra i membri dell’autonomia, e tra noi serpeggiava un’inquietudine diffusa ed anche una certa paura di finire al gabbio. Alla disgregazione del movimento giovanile e studentesco contribuì anche la comparsa nelle piazze dell’eroina, già sperimentata con successo negli USA per distruggere i movimenti politici dei neri e che negli anni seguenti si portò via tanti miei amici. I versi di Allen Ginsberg “Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi per strade negre all’alba in cerca di droga rabbiosa…” all’epoca mi sembrarono perfetti per descrivere la situazione, e la penso così ancora oggi. Eroina e radicalizzazione pilotata del confronto politico, ormai trasformato in scontro fisico aperto e spesso armato, ecco i due fattori che a mio avviso hanno affossato tutte le nostre speranze e ambizioni di cambiamento. Ci si avviava verso gli anni ’80 della Milano craxiana da bere, dei soldi facili, degli yuppies, delle TV commerciali che in 20 anni hanno lobotomizzato buona parte della popolazione, e dell’edonismo reaganiano, che avrebbero spazzato via ciò che restava dell’identità di classe e del senso di appartenenza, instaurando nuovi “valori” quali il successo ad ogni costo, la ricchezza e l’individualismo più becero e reazionario, portandoci verso una crescente (e inconscia?) "cupio dissolvi". Cos’è rimasto degli anni ’70? Disillusione, apatia, disinteresse, disgregazione... ma forse son io che sto invecchiando.

 

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