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n. 3 / luglio 2013

Lotta continua

 

Fabrizio Fiume
Professore di Storia Contemporanea
Università degli Studi di Bari Aldo Moro

 

La Nuova Sinistra italiana nasce fra il '68 ed il '69 e si incarna in un gruppo di organizzazioni volte a ricostruire un soggetto politico rivoluzionario lì dove il Pci aveva “tradito” la sua missione, passando ai colori del revisionismo e del gradualismo riformista. Principale fonte in cui sciacquare i propri panni, o meglio le proprie bandiere, per riportarle all'antica purezza è la dottrina maoista, fortemente rilanciata dalla Rivoluzione culturale che scuote la Cina da circa un biennio.

Dall'ottobre 1968 al novembre 1969 vedono la luce l’Unione dei comunisti italiani e il suo organo ufficiale, «Servire il popolo», poi i gruppi ruotanti intorno alle testate «Avanguardia operaia», «Il Manifesto», «Potere Operaio» (nato dall'evoluzione de «La Classe», fondata nel maggio 1969), mentre il processo di “istituzionalizzazione” dei movimenti incalza, trasformando il Movimento studentesco che fa capo all’università statale di Milano, in una vera e propria organizzazione (da cui la maiuscola) (1), fra maggio e giugno ’69 la sigla «Lotta continua» prende a circolare alla Fiat Mirafiori e quando il 1° novembre l’omonimo giornale inizierà le pubblicazioni, recherà in sé l’embrione della futura organizzazione (2).

A dispetto della fase immediatamente precedente, segnata da un crescendo movimentista che toccò lo zenit con le occupazioni universitarie e la mobilitazione pro-Vietnam del '67, l'inizio del processo di istituzionalizzazione non sembra sfruttare il vento di novità che spingeva verso largo le giovani generazioni (nuovi assetti sociali, nuove soggettività, nuova domanda di democrazia espressa da un sempre più diffuso antiautoritarismo), ma piuttosto bolinare, seguendo una mappa simbolica costellata di riferimenti al passato, con slogan e icone del primo terzinternazionalismo duro e puro, così come era stato riesumato da Mao nella sua polemica antisovietica a partire dal '56; d'altronde la stessa sintesi fra maoismo e antiautoritarismo, tentata nel segno di una Rivoluzione culturale della quale in realtà non si sapeva niente, appare sul piano logico, eufemisticamente parlando, quanto meno “problematica”. (3) Questa è dunque la rotta segnata il 4 ottobre 1968, quando la fondazione dell'Uci e, il mese successivo, del suo organo di stampa «Servire il Popolo», danno il via ad un'articolata e spesso rissosa Sinistra extraparlamentare: la loro “ortodossia”, schematica, fondata sul continuo richiamo all'autorità (rivelata nella vulgata maoista del marxismo leninismo) sembra quanto di più lontano si possa immaginare dall'idea oggi corrente degli anni Sessanta. Un numero speciale del '69 di «Servire il Popolo» dedicato proprio al movimento studentesco, si rivolge a giovani nelle scuole e nelle università recitando: «Tutti gli studenti riceveranno un grande beneficio illuminante a livello ideologico se si sottometteranno pienamente alla autorità del pensiero di Mao e se useranno con dedizione profonda il libretto rosso delle citazioni.» (4). Altro che sex, jazz and freedom, o l'imagination au pouvoir!

Eppure questo scollamento fra eventi nel loro tempo e memoria narrata non rappresenta una contraddizione veramente insormontabile.

In primis dobbiamo considerare i limiti fisiologici insiti sempre nel racconto di un epoca: la propensione, quasi una coazione a ripetere, a trasformare tendenze in atto in realtà già affermate e quella a ricomporre le tessere della memoria in modo coerente con i periodi successivi che già conosciamo, dimenticando che il divenire storico non procede in modo lineare.

In secondo luogo, non dobbiamo dimenticare come il passaggio dai movimenti alle organizzazioni sia inevitabilmente accompagnato da un grande sforzo mitopoietico (il mito dà legittimità e nello stesso tempo offre una stabilità ancora non raggiunta nei soggetti nascenti, è quasi il surrogato funzionale di una solida struttura ancora di là da venire), uno sforzo che abitualmente, come ci ricorda Raoul Girardet, parte proprio dall'evocazione di un'Età dell’Oro che, in questo caso, è quella della purezza rivoluzionaria e dei militanti incorrotti (5).

Infine va sottolineata la velocità con la quale la turbolenta transizione fra i due decenni ha consumato questo fenomeno, riducendo la sua importanza alla mera priorità temporale: con l'inizio degli anni Settanta si affermeranno in maniera assai più vigorosa culture politiche antagoniste che edificheranno, con alterna fortuna, un pantheon di Dèi figli della contemporaneità e in grado di guidarne il percorso. Saranno così le nuove formazioni “operaiste”, PotOp e, soprattutto, Lotta Continua, a lasciare un segno indelebile nel loro tempo, a mobilitare con più successo una nuova leva di militanti ed a lanciare un ponte verso scenari futuri, arrivando, come vedremo, fino a prefigurarne alcuni tratti. I motivi per cui, da ora, ci concentreremo su Lotta Continua sono molteplici e vanno dalla sua maggiore longevità, rispetto a Potere Operaio, al più esteso radicamento nel mondo giovanile (riconosciutole persino dalla controparte statale, che non a caso ne sorvegliava le mosse con particolare attenzione), al ruolo assolto da numerosi suoi ex militanti e leader nei successivi decenni, segno, questo, della bontà della “scuola” di provenienza. E infatti Lotta Continua riuscì a differenziarsi non solo nei contenuti, ma anche nelle loro innovative modalità di trasmissione, creando un vero e proprio “stile”, ed in questo senso si può parlare di scuola.

Il primo elemento che salta agli occhi è la scelta di costruire le proprie icone, a partire da quello che si può considerare il vero e proprio logo dell'organizzazione (la fabbrica con la ciminiera che forma un pugno chiuso), non attingendo al patrimonio grafico dell'Età dell'Oro, ma prevalentemente a quello del maggio francese. Ancora una volta occorre correggere un possibile errore di prospettiva, sottolinenando che se la cosa può apparirci oggi quasi scontata, non lo era invece ai tempi: solo pochi mesi erano passati da quei primi passi della sinistra extraparlamentare, tutti mossi nel “box” descritto dallo schema di Girardet, uscirne ed avviarsi a gattonare in campo aperto poteva rivelarsi assai rischioso in un territorio battuto dal Pci, creatura di una forza poderosa e che si era mostrata in grado di adattarsi ai cambiamenti in modo straordinariamente più efficace del suo omologo d'Oltralpe. Inoltre non pochi motivi, non ultimo la maggiore influenza cattolica che amplifica il messaggio pauperistico lanciato dal Concilio Vaticano anche oltre la “fine delle trasmissioni”, rendevano il nostro Paese più sensibile ai richiami neorurali e moralmente austeri della Cina maoista che a quelli libertari (e a tratti in odore di libertinismo) degli studenti parigini, il cui leader più prestigioso invitava a «bandire dalla pratica le tentazioni ebraico-cristiane quali l’abnegazione e il sacrificio»(6) e a «GODERE SENZA REMORE»(7).

La scelta di Lotta Continua non fu dunque né scontata, né facile. A maggior ragione va notato come oltre al citato “logo”, persino il nome stesso “Lotta Continua” sia di fatto la traduzione di uno slogan circolante fra le barricate di maggio(8).

Individuati dei simboli identificativi, e ancor prima di costruire il proprio pantheon, è l'opposizione noi v/s loro a costituire, da sempre, uno dei primi aggreganti, la particella primordiale di un'identità nascente. LC non fa, evidentemente, eccezione alla regola, eccezionale è invece il modo in cui viene applicata, rivelando un'attenzione alla qualità grafica, inedita nel panorama dell'estrema sinistra del tempo (ma non nell'esperienza francese, visto che la maggioranza del materiale di propaganda del movimento veniva prodotto da un apposito collettivo di militanti provenienti dalle arti grafiche). Da subito, lo sforzo di elaborazione teorica e dottrinale, nonché organizzativa, si accompagnò alla creazione di un’estetica e di un’etica dello scontro. Ancor prima che la testata iniziasse a uscire in modo regolare, quando cioè veniva stampata ancora in forma di reiterato “numero unico”, fanno la loro apparizione slogan ma anche e soprattutto immagini di battaglia urbana, ed è proprio la cura, l'originalità, la vera e propria bellezza(9) di queste immagini a renderle un medium efficace ed un tratto distintivo inconfondibile, una cifra destinata a diventare una costante nella comunicazione politica di LC, tanto che sia il numero 1 che il successivo si presenteranno con la copertina raffigurante una carica della polizia(10). Evidentemente l'altro non è solo il poliziotto, ma anche il fascista: due figure comunque considerate complementari e volto di un unico Stato. Nel secondo caso le immagini riprodotte perderanno le caratteristiche estetiche sopra descritte, un po' per esigenze “tecniche” (dal dicembre '70 inizia a essere pubblicato il Rapporto sullo squadrismo e le foto allegate risponderanno ai requisiti di una vera e propria schedatura), un po' per il riaffiorare, nelle crudezza degli scatti che invece ritraggono il nemico battuto, di quella componente distopica che, precipua del nuovo mito cinese, è comunque impressa nel DNA originario dell'estrema sinistra neocomunista.(11) L'emergere, a metà degli anni Sessanta, di tale componente, di fatto alternativa a quella utopica, è però sintomo, foss'anche minore, di un cambiamento assai profondo, della fine di un ciclo di lunga durata: si stava bloccando, e non solo in Italia, lo schema che fin dalle soglie della contemporaneità aveva garantito il funzionamento dei sistemi politici occidentali, basato sul rapporto dinamico fra mitologia, ideologia e utopia. In particolare nell'Otto-Novecento il loro intreccio aveva determinato tanto il sentire e il pensiero politici quanto l’azione sociale europea: mitologia e ideologia avevano rappresentato l’offerta del pensiero politico a fronte delle domanda di azione sociale, la costruzione di una società futura compiuta e scientificamente regolata dalle leggi dell’architettura politica-sociale. E in questo senso il totalitarismo, episodio finale del processo di modernità, si configura come utopia realizzata(12). Ma nella società in piena rivoluzione elettronica e mediatica, nel tempo delle famiglie mononucleari (e dunque schiacciate nel presente), è proprio la proiezione di Utopia nel futuro(13) a renderla ormai un bene invendibile. Da qui la crisi di una dinamica ormai plurisecolare. In forma assai embrionale PotOp e, più compiutamente, LC percepirono qualcosa e intuirono che al declino dell’“utopia totalitaria” non si poteva certo rispondere riesumando quelle precedenti.

Slogan quali «comunismo come programma minimo», «prendiamoci la città» o «tutto subito» (quest’ultimo destinato non a caso a esplodere nel ’77) appaiono in questa prospettiva non tanto come rigurgiti di un vecchio estremismo anarco-romantico, ma come i prodromi di un travaglio il cui frutto era ancora sconosciuto e presto si sarebbe rivelato assolutamente imprevedibile.

L’inconsapevole (forse) cambio dell’elemento utopico con quello virtuale operato dal gruppo di Lotta Continua sostituendo, con una complessa operazione simbolica, i ghetti dell'Ulster ai campi di battaglia del Terzo mondo o alle periferie dell'America latina e la formula «prendiamoci la città» all'evocazione delle «Basi rosse»(14), unitamente al notevole sforzo compiuto nell’elaborazione di un linguaggio giornalistico moderno e più diretto, come nell’uso a quel tempo innovativo di grafica e fotografia, potrebbero a questo punto apparirci come i pilastri di quel ponte verso scenari futuri attraverso cui, con circa un decennio di anticipo, una nuova élite si incamminò alla ricerca di altri “cento fiori” da cui trarre il nettare del pensiero e dell'agire politico.

(1) Il passo è sancito dall’articolazione formale dell’assemblea generale in commissioni e ovviamente dalla affermazione di un vero e proprio gruppo dirigente, espresso dalla Commissione operaia e dal Comitato di coordinamento.

(2) Interessante citare in proposito il ricordo di Vittorio Rieser: «[…] c’era la fase dell’assemblea studenti-operai, la nascita della sigla Lotta Continua, che inizialmente è nata non come sigla di un gruppo: mi ricordava Mario Dalmaviva che, a quanto pare, l’abbiamo inventata io e lui perché ogni giorno si faceva un volantino e, siccome le lotte si estendevano, una volta l’abbiamo titolato La Lotta Continua, dunque era un titolo descrittivo che poi è rimasto. Sofri poi si è impadronito di questo, ha rotto l’unità molto confusa dell’assemblea studenti-operai, ha costruito il suo gruppo e a quel punto io non l’ho seguito nel suo progetto», Guido Borio, Francesca Pizzi, Gigi Roggero (a cura di), Futuro anteriore. Dai «Quaderni rossi» ai movimenti globali: ricchezze e limiti dell'operaismo italiano, Roma, Derive e Approdi, 2002, l’intervista da cui è tratto il brano è nel cd allegato.I

(3) Emblematico è il fatto che la principale sinologa italiana del periodo, citatissima da militanti rivoluzionari, giornalisti e persino dai cattolici ogni volta che si doveva parlare della nuova Cina, Enrica Collotti Pischel, non conoscesse il Cinese,

(4) Il pensiero di Mao ci rende invincibili, «Servire il Popolo», aprile 1969; numero speciale dedicato al movimento degli studenti. Come da rituale, l'articolo si chiude con la liturgica formula: «Armati del pensiero di Mao abbatteremo tutti i nostri nemici. /Lunga, lunga vita al presidente Mao».

(5) I successivi passi sono rappresentati dalla cospirazione del Male, dal Salvatore e dal principio dell’Unità, cfr. Raoul Girardet Mythes et mythologies politiques, Parigi, Seuil, 1986; la tesi di Girardet è adottata anche da Kertzer, vedi David I. Kertzer, Politics and Symbols. The Italian Communist Party an the Fall of Communism, New Heaven - London, Yale University Press, 1996, p. 17.

(6) Gabriel e Daniel Cohn-Bendit, L’estremismo rimedio alla malattia senile del comunismo, Torino, Einaudi 1969, p. 326.

(7) Ivi, pp. 150-151, il maiuscolo è dell'Autore.

(8) Per avere qualche spunto su slogan e murales apparsi alla Sorbona ed a Nanterre nel maggio '68 cfr. Fabrizio Fiume, Vietato vietare. Viaggio fotografico tra gli slogan del Maggio parigino, Napoli, Pagano 1998. Circa il rapporto fra iconografia francese e italiana, cfr. invece Antonio Benci, Immaginazione senza potere. Il lungo viaggio del maggio francese in Italia,Milano, Edizioni Punto Rosso 2011.

(9) Per esempio il n.u. del 7 novembre 1969 apre la prima pagina con una foto che ritrae un agente in tenuta antiguerriglia che punta un lacrimogeno ad altezza d’uomo riparandosi all’angolo di un muro, sulla parete alle sue spalle campeggia il manifesto simbolo di lotta continua con la ciminiera che muta in pugno chiuso.

(10) Vedi «Lotta Continua», numero 1, a. I, 22 novembre 1969 e «Lotta Continua», numero 2, a. I, 29 novembre 1969; nella foto di copertina di quest’ultimo si pone in risalto l’armamento ‘eterodosso’ degli agenti, i manganelli sono affiancati a sassi e spranghe… simili a quella che ha appena ucciso l’agente Annarumma.

(11) Per il confronto fra mito sovietico e mito cinese vedi il capitolo II di Fabrizio Fiume, Verso un Futuro Assoluto. La Nuova sinistra in Italia fra utopia e tradizione, Napoli, Giannini 2007.

(12) Ibidem

(13) Sul nesso utopia-futuro cfr. Karl Mannheim, Ideologia e Utopia, Bologna, Il Mulino, 1970, p. 41.

(14) Vedi Fabrizio Fiume, Verso un Futuro Assoluto, pp. 100-106.

 

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