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Declinazioni cinematografiche della scelta e della responsabilità

 

Luana Piscopo
Dottore di ricerca
Università degli Studi di Bari

Negli anni settanta la società italiana, nelle sue declinazioni civili e politiche ha provato a ritmare il suo respiro con quello internazionale delle rivendicazioni dei diritti degli outsider. La rivoluzione epistemologica ed ontologica del decennio successivo inizia in questo intramezzo storico a definire i modi e i luoghi del cambiamento, tra evoluzioni semantiche e relazioni ibride. Il passaggio dalla de-regolamentazione alla ri-regolamentazione, il conio di terze vie con cui il privato comunica ed interagisce con il pubblico, saranno in questo blocco storico abbozzati per concretizzarsi compiutamente nel periodo seguente.

Una narrazione per immagini della contraddizione latente degli anni settanta, quando le speranze sessantottine hanno tentato di mutare i rapporti rifondando la legittimità dello Stato moderno, è il film documentario Matti da slegare, realizzato a cavallo tra la sperimentazione e la legiferazione del cambiamento. Mentre scorrono i titoli di testa la questione del malato e dell’insanità mentale evade dal recinto della medicina per unirsi alle voci di protesta della classe operaia. Nella sacca degli istituti privati di accoglienza dei cosiddetti subnormali si reitera, amplificata, la condizione di sfruttamento dei lavoratori, un’espropriazione continua ed incessante dei corpi e dei suoi prolungamenti - diritti, libertà e dignità.

Il manicomio rappresenterebbe l’ennesima “area di compenso” (Basaglia, 2005, p.53) in cui la società rinchiude gli scarti prodotti dal suo stesso metabolismo; è il luogo in cui il disordine ammucchiato garantisce l’ordine esterno. “Questa è anche la società in cui si forma lo psichiatra da essa delegato alla cura dei malati” (Basaglia, 2005, p.54). Il medico racchiude, amplificandola, la contraddizione: conservatore e custode dell’ordine e al contempo portatore sano di una scelta. In questo scasso può decidere di agire o può declinare la sua libertà nelle forme della malafede (Basaglia, 2005) reiterando la condizione di “funzionario del consenso” (Basaglia et al., 1975, p.VIII). La contraddizione si insinua nei rapporti e nelle strutture: da un lato, la società produce le condizioni e le premesse dell’internamento e dell’esclusione, dall’altro, la stessa istituisce delle figure che, entro luoghi recintati e lontani dalla fonte del disturbo sociale, devono limitarsi a riconosce e catalogare le forme della pazzia (Foucault, 2005). Il ciclo terapeutico sembra concludersi con l’oggettivazione del soggetto riconosciuto dall’altro e da se stesso come malato.

Scena dopo scena si scopre che il prodotto filmico consente una lettura metacontestuale: si insinua in quell’agitazione culturale in cui l’intellettuale ha tentato di definire il suo ruolo e la sua funzione entro la società e a partire da questa. La committenza, rivedendosi nel documentario, si scopre potenziale produttrice e conservatrice dello status quo. Si delinea visivamente il piano degli scontri, delle incomprensioni e della crisi. Matti da slegare rimanda all’amministrazione di sinistra, ai funzionari e ai tecnici del consenso i limiti concettuali e formali dell’apertura manicomiale priva di una rivisitazione ontologica e culturale dei comportamenti e delle pratiche, confermando quanto la rivoluzione semantica possa tradursi in una vacua trasformazione senza vitalità. Di qui la crisi psichiatrica deflagra in crisi istituzionale e politica.

Solo per un momento il documentario sfiora la questione della nomenclatura della malattia entro la disciplina, confermando quanto la semantica sia in grado di veicolare visioni ideologiche fondanti la percezione e l’azione pratica. In questo breve accenno emerge il “superamento della psichiatria tradizionale” (Bernardi, 1978, p.101): sarà un “tecnico del sapere pratico” (Basaglia et al., 1975, p.VIII) a dichiarare dinanzi alla macchina da presa quanto sia superata la distinzione tra recuperabili ed irrecuperabili poiché è a partire dall’esclusione attuata dalle parole che comincia il percorso di spoliazione del sé, il passaggio dal soggetto all’oggettivazione dello stesso.

Il documentario diviene azione concreta con cui l’intellettuale prova a tradurre l’utopia in un presente modificato. Il gruppo di registi, anche questo un elemento alternativo rispetto alla singolarità di un approccio individuale all’opera cinematografica (Nicastro, 1992), è “intenzionato a rifiutare la celebrazione e a lasciare emergere, se vi siano, incompletezze e disaccordi […]” (Bernardi, 1978, p.91). Attraverso il prodotto filmico l’intellettuale ha scelto di scegliere, ha scelto la libertà del suo essere attraverso la realizzazione di un fine, uno scopo. Matti da slegare “dimostra sin dalla prima inquadratura la necessità di riportare lo strumento del dire (cinematografico) e del comunicare a una dimensione che ne garantisca l’utilità e l’impegno” (Causo, 2004, p.74). La “partecipazione umana offerta dai ricoverati” ha rappresentato un “nuovo modo, concreto, per affermare le capacità d’incidenza del cinema” (Nicastro, 1992, p.252-3).

In un rapporto di continuità cronologica e d’intenti, le immagini in movimento sembrerebbero seguire la pubblicazione di un libro fotografico ideato dai Basaglia (1969) sulla condizione degli internati negli ospedali psichiatrici di Gorizia, Parma e Firenze. Anche se alle sagome immobili dei corpi la macchina da presa ha concesso l’audio e l’azione, la scelta del documentario rimarca la volontà di partire da individui realmente coinvolti nell’istituzione. Non solo in apertura i registi evidenziano graficamente l’autenticità dei personaggi e delle esperienze narrate, ma anche gli otto mesi di montaggio, rispetto ai venti giorni di ripresa, confermano la difficoltà di gestire quel materiale vivo (Bernardi, 1978, Agosti et al., 1976).

Il passaggio dalla coercizione all’apertura, il reinserimento degli irrecuperabili riprende, da altra angolatura, quell’interrogazione avviata - a livello transnazionale - sul ruolo delle istituzioni e sulla capacità di queste di consentire o bloccare la partecipazione di soggettività che chiedono riconoscimento. In questo modo la questione della malattia mentale rientra in un discorso più ampio, non solo tecnico, né tanto meno solo medico-scientifico.

In Matti da slegare la protesta poggia su altri piedi, ma esiste in continuità con il fuori, nazionale e transnazionale. Si scopre, così, quanto le richieste di un ex internato e quelle di un infermiere, figure ai poli della relazione, siano affini e comuni: entrambi spingono per la formazione di una rappresentanza dei degenti fin dentro le commissioni per la gestione economica dei manicomi; entrambi impugnano i diritti sindacali per un’omogeneità di trattamento dei lavoratori, siano folli o normali. “Il malato […] è un lavoratore, uno sfruttato come noi […]” (Agosti et al., 1976, p.118). Il trait d’union dei poli della dialettica manicomiale fa emergere quanto siano congiunti e non antagonisti i ruoli degli addetti all’ordine dagli oggetti della loro catalogazione e classificazione. Il lavoro e la fabbrica divengono epicentro del cambiamento: le immagini di un gruppo di disadattati entro un’officina e le spiegazioni di un operaio che appoggia il significato del reinserimento lavorativo, testimoniano la connessione delle sfere, degli ambiti e degli obiettivi da raggiungere.

Il recupero avrebbe dovuto interessare tanto la dialettica medico paziente filtrata dalla rifondazione concettuale dell’internamento, quanto la relazione dell’individuo con la famiglia, con il territorio nativo nelle espressioni collinari e silenziose delle piccole comunità. Nelle storie delle mamme e delle nonne la denuncia e l’allarme. Si scopre pian piano che i motivi dell’internamento di alcuni ragazzi, figli, si allontanano sempre più dall’insanità mentale per rientrare nel magma delle problematiche sociali ed economiche di donne in una realtà incapace di includerle e riconoscerle. Queste voci “producono un’altra storia, che germoglia sulla prima e si sviluppa quel tanto che basta per essere autonoma, per farci dimenticare il personaggio cosiddetto principale e intravedere un altro universo a pochi passi di distanza, altro volto della stessa realtà” (Bernardi, 1978, p.96-7). Ed ecco nuovamente che la questione dell’istituto manicomiale denuncia le discrasie di uno spazio democratico inerme dinanzi alle discriminazioni. Il documentario, visivamente, riesce a dar voce anche a quelle rivendicazioni femministe che, insieme alle lotte sindacali degli operai e alle agitazioni studentesche, animano tutti gli anni settanta.

In controluce, tuttavia, sembra emergere il rischio che ogni rivoluzione porta con sé, se non accompagnata e sostenuta da un’evoluzione percettiva, al di là della mutazione legislativa. I rischi di una possibile involuzione emergono per bocca dei cosiddetti pazzi, dei registri del documentario (Agosti et al., 1976), così come per ammissione della committenza tecnico-scientifica. L’occupazione lavorativa e la ristrutturazione dei manicomi potrebbero non essere sufficienti a bloccare eventuali forme di esclusione e repulsione. Quando uno dei ragazzi in fabbrica cancella i giorni di festa sul calendario (Matti da slegare, 1975) riconosce che il lavoro non può essere l’unica risposta possibile, l’unico riempitivo in una giornata che necessita di altre relazioni sociali. Il reinserimento lavorativo, l’atto isolato in sé, potrebbe essere la conclusione amputata di un progetto iniziato con l’apertura dei manicomi ed ora bloccato nel passaggio dall’internamento rigido “all’istituzionalizzazione molle” (Basaglia, 2005, p.25).

L’apertura dei manicomi rischia di tradurre la forza in una nuova forma di sudditanza del malato nei confronti del custode di turno, reiterando la passività di una vita che scorre lontana dalla presa di coscienza dell’essere nel mondo. La concessione dall’alto trasla, anche se in altri luoghi, quel rapporto diseguale e sbilanciato tra i due termini della relazione. In questo senso la mutazione strutturale rischia di rifondare una realtà ideologica che continua a legittimare le forme della dipendenza. Altro è il tentativo, che comunque necessita di un’evoluzione legislativa, di alimentare nei reclusi liberati quel “sentimento di opposizione al potere” (Basaglia, 2005, p.61) fondante ogni processo di consapevolezza e riappropriazione del sé.

E’ lo stesso Basaglia che a metà degli anni settanta ammette la contraddizione latente di ogni movimento rivoluzionario, le forze reattive e assorbenti della crisi: qualsiasi nuova ideologia, sostituendo la precedente, rischia di prenderne il posto, azzittendo le voci fuoricampo. E’ come se il filosofo psichiatra avesse avvertito le conseguenze della crisi dell’istituzione nelle sue differenti manifestazioni. L’ingovernabilità, causata dalle richieste di riconoscimento di soggettività prima escluse, avrebbe determinato il sovraccarico e l’impasse della macchina parlamentare (Crozier et al., 1977). Di qui la necessità di modificare gli equilibri tra esecutivi e legislativi, élite e governati. In questo discorso il momento creativo della crisi è divenuto sostrato culturale per rifondare i luoghi della legittimazione. In continuità con quanto avveniva a livello transnazionale, la nuova psichiatria temeva l’assorbimento del cambiamento a partire dal suo stesso riconoscimento.

Il documentario parla dell’istituzione senza mostrarla, se non attraverso quelle suore e quei custodi che negano agli operatori della macchina da presa di filmare gli interni dei reparti. L’efficienza dell’internamento, i suoi meccanismi di acquietamento, tuttavia, riemergono nelle esperienze degli intervistati, nelle dichiarazioni e nei ricordi, ma anche nei racconti delle “persone di fiducia” (Goffman, 2010, p.161). Fin dall’inizio, così, il documentario diagnostica gli effetti totalizzanti delle istituzioni non solo manicomiali. Il bambino subnormale che meccanicamente si rifiuta di rispettare le regole imposte dalla scuola, i compagni di classe chiamati a giudicare il suo comportamento sono le tappe della carriera dell’escluso (Goffman, 2010, Matti da slegare, 1975). L’edificio manicomiale appare nelle scese conclusive. Al suo interno è azzerato qualsiasi impulso reattivo dei soggetti registrati. Ma è in questi stralci che il potere dei manicomi si mostra nuovamente, in altre sfumature ed intensità. E’ una manifestazione della forza che emerge a partire da quei corpi, da quegli atteggiamenti privi di vitalità, se non addomesticata. L’aver introiettato i tempi e le funzioni dell’istituzione, il suo ritmo propedeutico all’ordine, conferma l’egemonia, la sopraffazione della struttura per volontà dell’individuo stesso. Ecco come comprendere il desiderio di alcuni internati di restare entro le mura, rinchiusi anche se in possesso delle chiavi per aprire le celle. La malattia originaria che ha mosso le leve sociali dell’esclusione, non riesce più a discernere un soggetto dall’altro: la diversità ed unicità di quei malati, una volta entrati nell’istituto, si è tradotta in omogeneizzazione degli atteggiamenti. In questo contrasto, tra il protagonismo dei primi intervistati al di là del muro e l’assenza di discorso di quelli entro l’istituto, si chiude il documentario. Le canzoni intonate da pochi riempiono il vuoto di sguardi assenti e i silenzi.

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

AGOSTI S., et al., 1976. Matti da slegare. Torino: Einaudi.

BASAGLIA F. e BASAGLIA F. (a cura di), 1969. Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin. Torino: Einaudi.

BASAGLIA F. et al. (a cura di), 1975. Crimini di pace. Ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come addetti all’oppressione. Torino: Giulio Einaudi Editore spa.

BASAGLIA F, 2005. L’utopia della realtà. Torino: Giulio Einaudi Editore spa.

BERNARDI S., 1978. Marco Bellocchio. Milano: Il castoro cinema.

CAUSO M., 2004. Matti da slegare nessuno o tutti. in: CERETTO L., ZAPPOLI G. (a cura di), 2004. Le forme della ribellione. Il cinema di Marco Bellocchio. Torino: Lindau.

CROZIER J.M. et al., 1977. La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione trilaterale. Milano: Franco Angeli Editore.

FOUCAULT M., 2005. Storia della follia nell’età classica. Milano: Biblioteca Universale Rizzoli, RCS.

GOFFMAN E., 2010. Asylum. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza. Torino: Giulio Einaudi Editore spa.

Matti da slegare – Nessuno o tutti, 1975. Film. Diretto da Marco Bellocchio, Silvano Agosti, Stefano Rulli, Sandro Petraglia. ITALIA: 11 marzo cinematografica per l’assessorato provinciale della sanità di Parma e regione Emilia-Romagna.

NICASTRO A. (a cura di), 1992. Marco Bellocchio. Per un cinema d’autore. (s.l.): Ferdinando Brancato Editore. p.154.


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