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n. 2 / gennaio 2013

Nella crisi globale della democrazia.
Dai diari di viaggio

 

Salvatore Cingari
Docente di Storia delle Dottrine Politiche
Università per Stranieri, Perugia

Le foto relative all'Egitto sono di Marco Bistacchia e Monica Lobato Barreira; quelle sulla Bulgaria e la Spagna sono dell'autore.

 

10 Ottobre – 20 dicembre 2010. Dipartimento di italianistica – Università del Cairo.
Il campus della “Cairo University” è da un secolo ricavato in una struttura prima appartenuta ai Khedivé. Gli uffici del rettorato conservano uno sfarzo regale, mentre le altre palazzine si squadernano in uno stile misto di modernismo e spunti neo-classicheggianti, in un aprirsi di padiglioni spesso luminoso ed elegante all'esterno, ma con interni ammaccati e in abbandono, talvolta perfino cosparsi di qualche rifiuto. Si erge al centro della cittadella, con interessante climax stilistico, la futuristica biblioteca di recente costruzione. A chi non ha mai vissuto nel mondo arabo non può risultare indifferente il maestoso sciamare dei veli delle studentesse (quasi tutte le ragazze di religione islamica, sempre di più dopo l’11 settembre). La loro leggerezza rompe la tensione evocata dal posto di blocco militare all'entrata del portone principale.


Che le condizioni fossero quelle di una crisi imminente poteva non sembrare strano visitando le zone più popolari. Non solo la Downtown, il centro della città ricco di suggestioni architettoniche parigine e londinesi, ormai abitato dalla piccola borghesia locale, in cui è possibile vedere uomini-ragno come a Calcutta e masse di immigrati sudanesi che pasteggiano a un euro, con il rischio di contrarre l'epatite che qui è diffusa in quasi la metà della popolazione. Ma anche le aree urbane rasenti la cittadella islamica e il mercato di Kahn-el-Khalili, a non molti passi in linea d'aria con piazza Tahir, in cui si aprono quartieri simili a come dovevano apparire a un viaggiatore nordeuropeo i bassi napoletani a fine ottocento. E poi la Città dei morti. Un cimitero esteso come un centro urbano, dove da decenni le persone vivono negli annessi in muratura alle tombe o in edifici di nuova edificazione, convivendo praticamente con le visite dei parenti dei defunti. Le autorità cercano di evitare che i turisti si confrontino con questo scenario di nuda quanto dignitosa povertà.

All’opposto il quartiere di Heliopolis, forse esteticamente il più bello della Capitale, dove s'innalza l'imponente residenza di Mubarak. Le verticali differenze sociali assumono un valore quasi simbolico nel paese delle Piramidi. Girando per il parco archeologico di Giza il pensiero andava ai bonus dei top manager e alle rendite finanziarie. E così la satrapia locale mi appariva sempre più familiare da quando erano cominciate ad arrivare le surreali notizie su Ruby e i suoi amici e parenti. Il ceto medio si sta qui immiserendo più in fretta ancora di quello occidentale, costituendo forse uno specchio del suo futuro. Un professore d'università guadagna un centinaio di euro al mese, poco più di un poliziotto o di un operaio o di un impiegato medio. I custodi o gli amministrativi – mi dicono – non possono essere disponibili a prestazioni fuori dai compiti ordinari, data la miseria della loro retribuzione. Anche nel mondo arabo una pesante sforbiciata ha tagliato le facoltà umanistiche, come quelle di lingue, in favore dei curricula più adeguati al mercato. Le stesse culture distanti vengono studiate nella prospettiva del turismo e dell'internazionalizzazione delle imprese (come da noi, del resto). L'approfondimento scientifico sembra cioé, ormai, un optional esoterico. All'Istituto di Cultura Italiana, un'elegante palazzina nel cuore del quartiere di Zamalek, in cui la densità di interni liberty di pregio sembra superiore a quella di qualsiasi capitale europea, la direttrice mi dice della sua impotenza di fronte alla confusione in cui giace la Biblioteca, il fondo più importante di testi italiani di tutto l'Egitto: nessuno può pagare neppure un contrattista che effettui il riordino. Pochi giorni prima di partire, in una riunione organizzata dall'addetto culturale dell'Ambasciata con tutti gli italianisti degli atenei cairoti e con noi visiting professor, i docenti locali lamentano i pesanti tagli imposti alla ricerca e alla didattica: “vogliono impedirci di pensare”, ci dicono, trovando orecchie ben avvezze a questi toni. L'associato dell'Università del Cairo, poi diventato un leader moderato della rivolta, denunciò con forza il clima repressivo e poi mi mandò una toccante e-mail di saluto in cui, senza che avessimo mai esplicitamente parlato di politica, mi scriveva: “ anche io odio i regimi autoritari e corrotti”.
Alcuni studenti dell'opposizione, nella fatiscente sede del “partito della dignità” in cui una foto di Nasser dominava stanzoni ingombrati di vario modernariato dismesso: simpatizzanti anche dei Fratelli musulmani, essi sembravano ritenere che non ci fosse bisogno di un programma: sarebbe stato sufficiente realizzare il cambiamento e cioé spodestare Mubarak. Questi giovani pensavano nei termini di un rilancio dell'economia egiziana rispetto a cui i nostri rilievi sui problemi ambientali (la densità di polveri sottili al Cairo è molte volte superiore alla soglia di sostenibilità) apparivano inezie. La soluzione al problema sociale veniva da loro vista soltanto nell'Islam, che impone ai ricchi un contributo per i meno abbienti, dato che più proficuo sembrava ad essi fondare il patto sociale sulla verità divina che non su quella della vanità umana incarnata nelle leggi dello Stato, non molto differentemente da quanto riteneva il Manzoni delle Osservazioni sulla morale cattolica.

Il più spiazzante dislocamento cronologico: ad Alessandra d'Egitto, la città di Filippo Tommaso Marinetti e di Giuseppe Ungaretti. Ma anche la città in cui Enrico Pea e Fausta Cialente vissero fasi importanti della loro vita. La comunità italiana conta ormai soltanto poche centinaia di persone; si è sfoltita progressivamente, come le altre comunità di origine europea, dopo la decolonizzazione nasseriana che incentivava le attività dei locali sfavorendo quelle degli stranieri. Nella casa di riposo della comunità italiana la nota più ricorrente è la nostalgia. Il salottino di rappresentanza, ormai dismesso. I vecchi telefoni a muro in stile d'epoca. Le inferriate floreali. Gli anziani nati qui in Egitto, volteggianti faticosamente nelle loro vestaglie, si esprimono con un italiano magari venato di inflessione regionale, ma anche in arabo e in altre lingue come il francese e il greco. E poi un Museo della memoria, con gli effetti personali degli emigranti. Persino un'istallazione montata con le valigie d'epoca. Apro appena un'agendina ed è come se traboccasse il mare: “avverto tutto il peso degli anni... venite a trovarmi, qui c'è posto per tutti”.
Nella porta d'ingresso nereggia un busto in bronzo di Vittorio Emanuele III. Lo chiamano “il nostro Re” e ancora ricordano la sua visita del 1933. Una signora nega le sue responsabilità di fuggitivo. Ricordano positivamente il fascismo che, certo, per loro sarà stata una stagione di compensazione identitaria rispetto a una condizione di spaesamento e minorità. Discuto a lungo con un’esponente della comunità, animato da un nazionalismo archeologico, che tocca punte inquietanti quando, nella pur comprensibile critica della politica dello stato di Israele, arriva quasi a spiegare l'Olocausto anche come una reazione al sionismo, ponendo addirittura in dubbio il carattere apocrifo dei Protocolli dei Savi di Sion. Parlando dei tanti personaggi della cultura italiana legati a questi luoghi, al mio accenno alla Cialente glissa imbarazzato, dichiarando che la scrittrice non poteva riscuotere il suo interesse per motivi politici, essendo stata anche legata ai servizi segreti inglesi. “Niente politica” ingiunse però in malo modo alla stagista che mi stava raccontando della sua partecipazione all'Onda studentesca.
Sarei poi rimpatriato tre giorni prima dell’attentato di Alessandria e a un mese dalla rivolta contro Mubarak.



27 marzo-1 aprile2011 - Università di Blageovgrad – Bulgaria - Facoltà delle arti.
Appena arrivato all’aeroporto di Sofia, il professore che mi ospita nel suo corso mi porta fuori a cena, in una semiperiferia immersa nel buio punteggiato dalle luci di localini e alberghi e talvolta squarciato dai cartelloni pubblicitari.

Il collega mi parla dei difficili anni del regime. Suo padre, studente di filosofia, fu incarcerato per due anni, per aver espresso pensieri critici sul regime. La famiglia della madre perseguitata per il nonno imprenditore. Vedo che ha qualche perplessità quando gli dico di un recente dibattito a cui ho partecipato a Firenze, organizzato da uno spezzone dell’ex Rifondazione comunista. Quando mi chiede con un interrogativo lievemente ironico che significhi essere di “sinistra radicale” oggi in Italia, temo un complicato confronto con un intellettuale dell'Est Europa carico di livore per tutto ciò che assomigli al comunismo. E invece scopriamo una certa affinità d'idee politiche. Anch’egli teme per la crescente subordinazione di tutti i beni comuni alla logica finanziaria e commerciale. Vota per il partito verde, qui elettoralmente irrilevante, data l'assenza di soggetti politici che si facciano carico di istanze di reale rottura. Mi dice che la sinistra ufficiale, erede del partito comunista, è più affarista dello stesso partito di centrodestra, il cui grado di soggiacenza agli interessi privati è peraltro già molto alto. Indicativa di ciò del resto la sudditanza del loro attuale premier di destra al capo del governo italiano. Anche nell'ambito di una serie di accordi bilaterali è stata fatta costruire una statua di Garibaldi nel centro di Sofia, che mi porta a far vedere proprio per poter sincerarmi della sua rara bruttezza. Si tratta di un Generale magro e con lo sguardo rivolto al cielo, quasi come un cavaliere templare del Medioevo o meglio simile ad Alberto da Giussano (e cioé al “Power ranger” con cui ne scambia una riproduzione Checco Zalone nel suo primo film).


Mi racconta di come qui l'Accademia delle Scienza, dove lavora sua moglie antropologa, abbia di recente rischiato d'esser chiusa dal governo in nome dei tagli (ma quanto resisterà ancora?). Da loro gli ordinari come lui guadagnano 800 euro al mese. La situazione non è di molto migliore di quella che trovai in URSS poco prima della caduta del muro, con un ceto accademico proletarizzato, solo che ora l'economicismo produttivistico è di marca privatistica e neocapitalistica. In Bulgaria i docenti sono obbligati a un carico didattico enorme, superiore alle 300 ore annue, sul tipo di quello imposto in Germania. Impossibile quindi fare ricerca in modo proficuo.
Gli studenti, che a occhio non sembrano sfoggiare un look diverso da quello più genericamente europeo, sono abbastanza attenti. Parlando del Nordafrica una studentessa particolarmente combattiva e attenta ai temi emancipazionisti, eccepisce sulla possibilità che vi sia un'evoluzione democratica dei paesi islamici, dato che a suo avviso non sono mai esistiti esempi simili. Io gli parlo del Libano e della stessa Palestina, ma lei ribatte con decisione rimarcando l'insoddisfacente tutela dei diritti delle donne in quell'area del mondo. Del resto qui in Bulgaria – patria di Elias Canetti, il solo paese in Europa, assieme alla Danimarca, in cui popolazione e classe dirigente si oppose alla deportazione degli ebrei - il tema del rapporto con l'Islam è piuttosto sensibile e non mancano le critiche “orientalistiche” del ceppo maggioritario alla tendenza alla corruzione dell'elemento di origine turca e di religione islamica che costituisce il dieci per cento della popolazione, a cui si aggiunge una cospicua componente Rom. Ho avuto modo di visitare Plodviv, considerata la città più bella del paese, che un tempo era stato l'antemurale romano all'invasione dei bulgari. Grande quanto Firenze, sede a sua volta universitaria e di una fiorente tradizione culturale, di qui partono gli autobus che in sole quattr'ore arrivano ad Istambul. Si ergono snelli minareti che, assieme alle cupole ortodosse e alle rovine romane, conferiscono all'atmosfera un senso di contaminazione che accenna a Gerusalemme e mi fa amaramente pensare a un articolo di Pietro Ottone sull' “Espresso”, in cui si diceva che mentre le moschee erano ammissibili nelle città italiane, non lo erano, appunto, i minareti, dato che avrebbero deturpato il loro più schietto skyline (veniva riesumata in pratica, dalle colonne dell'organo della borghesia illuminista, la categoria romantico-reazionaria di “autenticità”).

Anche sulle diseguaglianze e le privatizzazioni, trovo in Bulgaria un orecchio più attento che in Polonia, dove ho effettuato lo scambio erasmus l'anno passato. Qui infatti lo sviluppo è stato molto meno impetuoso dopo la caduta del muro, il costo della vita è particolarmente basso ma anche i servizi pubblici e gli esercizi commerciali privati sembrano in affanno. La direttrice del Dipartimento mi dice che presto saremo “tutti con il sedere per terra”. Trovo accenti affini in una fonte insospettata e cioè nell'addetto culturale dell'ambasciata italiana. Avendo egli passato alcuni anni al Cairo, ci troviamo d'accordo sul fatto che l'insurrezione abbia avuto la sua causa più profonda nelle diseguaglianze economiche e nei suoi effetti distruttivi sulla dignità delle persone. E concordiamo anche sul fatto ch'essa sia lo specchio del nostro futuro, se un giorno i giovani dovranno prendere atto del vuoto che li attende. Il suo ufficio è all'Istituto di cultura, in un appartamento poco accattivante e di dimensioni ridotte. Niente a che fare con il raggiante istituto Cervantes nel centro di Sofia, che il collega bulgaro mi fa vedere da fuori, confessandomi che spesso si è trovato a pentirsi di essersi specializzato nella lingua e cultura italiana anziché nella spagnola, proprio per il differente investimento che negli altri grandi paesi europei vien fatto per la cultura rispetto al nostro.

Il tema delle nuove generazioni viene fuori anche nella conversazione con l’appena trentenne docente di lingua italiana. Mi dice come i giovani siano sempre meno motivati nello studio, perché anche qui sentono come questo sia sempre meno importante per la vita lavorativa. Ma, forse, meno importante in generale per la costruzione di un'identità che è ormai sempre più totalitariamente nelle mani del capitalismo bio-politico e dei suoi strumenti “spettacolari”. Tornando da Plovdiv familiarizzo alla fermata del bus con un italiano. Un giovane anch’egli sulla trentina, che fa praticamente il pendolare con il Piemonte, da cui proviene, per contribuire a gestire l'impresa paterna. Si occupano dell'edificazione degli spazi per parchi di divertimento, villaggi turistici etc. Mi dice che fino a qualche anno fa qui si guadagnava molto di più perché non c'era concorrenza. Ad un certo punto mi dice anche come sia sorprendente il modo con cui i bulgari esigono che si paghino le tasse: “tutto sommato non è così negativo: le paghi e tutto è a posto”.
Se in Polonia il comunismo è una presenza viva nella memoria collettiva, anche se soltanto come riferimento negativo dei valori pubblici, qui sembra invece che domini un'assoluta rimozione. L’imponente sede della scuola del partito della provincia di Blageovgrad, ospita oggi la foresteria dell'Università, immersa nei boschi e nell'aria collinare. Arrivato a Plovdiv ho rischiato di perdermi perché i nomi delle vie non corrispondevano più a quelli della mappa. Vagando per la città, cercando una toilette, son finito negli scantinati della locale Accademia di Belle Arti. Su un tavolaccio di legno ho suggestivamente incontrato, di fronte ai bagni, tre grandi ritratti fotografici, probabilmente ex leader del partito. Ho chiesto a un giovane studente se sapeva chi fossero, ricevendone una risposta negativa priva di alcuna curiosità “archeologica”. L'ultima sera, a Sofia, sono andato invece a mangiare qualcosa in un locale vicino all'albergo, dal nome intrigante: “revolution”.

Esso deve il nome ad una serie di riferimenti a Cuba, con ritratti di Che Guevara e Castro alle pareti. Ho interrogato in inglese il proprietario quarantenne, chiedendogli se i simboli di quel locale avessero ancora un significato attuale e se vi fosse fra i giovani che lo frequentavano un dibattito critico sul sistema economico e politico contemporaneo. Ma lui, indicandomi la cameriera ventenne e gli altri ragazzi seduti nel locale mi dice: “loro non sanno niente di tutto questo. Le foto e i nomi funzionano solo da vecchie memorie, senza alcuna influenza sul presente”.

 

Maggio 2011. Università di Oviedo, Spagna - Dipartimento di Filologia.
Il tratto d’unione delle lezioni tenute a Oviedo è stato la crisi della cittadinanza democratica e l’invasività del potere economico-spettacolare e dei valori aziendalisti. Non è poco l'ascolto che trovo in un paese in cui già si era abbattuta la scure della finanziaria imposta dall'Europa, che avrebbe sancito il declino definitivo del sogno zapateriano.

Un altro tema è quello della compensazione securitaria e identitaria della frantumazione sociale operata dal finanzcapitalismo. Il problema in Spagna è particolarmente delicato. Qui infatti la rivendicazione delle identità linguistiche e culturali ha una tradizione emancipativa e progressista, legata alla lotta al franchismo e alle rivendicazioni sociali. Oggi poi i processi di globalizzazione sembrano riportare sotto una luce più positiva i concetti di indentità locale e nazionale rispetto al cosmopolitismo omologante dei mercati e delle istituzioni sovranazionali ad essi asservite. Autonomia sociale versus sovranismo: si può anche rideclinare così la questione. E tuttavia non posso non far notare come un’uscita democratica dalla crisi non possa prescindere da un movimento tendenzialmente universalistico (anche per Marx la distruzione delle comunità originarie ad opera del capitalismo sembrava un passaggio verso un capovolgimento in cui poi ogni singola persona avrebbe sviluppato la sua personale libertà dal bisogno). Faccio anche rilevare come le doppie scritte in castigliano e asturiano nei vari locali di Oviedo, rispondenti peraltro a logiche spesso turistico-commerciali, mi lascino perplesso data l'estrema somiglianza delle due dizioni.
Oviedo e Gijon sono città che, come ad esempio Barcellona, in una scala molto più grande, mi sembrano più decisamente capaci, dei tracciati urbani italiani, di contaminare antico e moderno. Certo da noi la concentrazione di memorie artistiche e storiche è più alta e condizionante che in Spagna: e tuttavia non deve essere senza legame, il nostro immobilismo, con la natura oligarchica e gattopardesca delle élites locali e con la scarsa capacità di progettualità dello stato-nazione nei suoi 150 anni di vita. A Oviedo il centro città è disseminato di una mostra permanente di sculture boteriane, fra cui un nudo integrale con un megaculone che funziona anche da luogo per darsi appuntamento. Penso che in Italia il potere delle curie renderebbe impossibile una tale mancanza di pruderie.


Ma non è il solo paragone che viene spontaneo fare. Il costo della vita è molto basso. A Oviedo si può passare tutto il giorno in locali come il “Colonial” o l' “Oriental” a leggere e scrivere, con internet a gratis, consumando colazione, pranzo, merenda e cena a poche euro, in ambienti suggestivi molto più rari in Italia, dove nei bar, in genere spogli e con poca identità, si prende il caffé e si scappa via. La qualità dei servizi pubblici sembra sicuramente diventata superiore alla nostra. Mi dice infatti un collega di qui che dalle Olimpiadi di Barcellona del 1990 loro son andati avanti, mentre noi ci siamo fermati. Il passaggio di tangentopoli si è in realtà avvitato in una grande Restaurazione post-moderna: un oligarchismo d'antico regime. Presto probabilmente anche lo stato sociale spagnolo crollerà. Tutti attendono la botta terrificante del prossimo governo “popular”. Faccio in tempo ad ammirarne le ultime vestigia: aiuti per la casa ai giovani della regione. Poco dopo la mia partenza gli indignados invadono le strade della Spagna. Anche il collega precario Quique partecipa alle manifestazioni, con i suoi piccoli figli. “forse non servirà a nulla, ma voglio che loro ricordino di esserci stati” mi scriverà per mail.

 

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