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n. 2 / gennaio 2013

Vecchie e nuove rappresentazioni agli antipodi dell’occidente. Fuegini e italiani nella costruzione dell’immaginario post-unitario della Marina Militare

 

Fabiana Dimpflmeier
Scuola di dottorato in “Mito, rito e pratiche simboliche”
Università degli Studi di Roma ‘La Sapienza’


Prima dell’apertura del Canale di Panama, lo Stretto di Magellano all’estremo sud dell'America Latina era l’unico collegamento fra i due grandi oceani che bagnavano le coste del continente americano. Da quando nel 1830 quattro fuegini – tre uomini e una donna –, sporchi e nudi, erano stati prelevati dal capitano Robert Fitz-Roy da quei freddi climi e trascinati al cospetto di Re Guglielmo IV e della Regina Adelaide, l’intera area era poi balzato all’attenzione dell'intero mondo occidentale. L’ufficiale della marina britannica aveva infatti ideato una vera e propria ‘operazione di recupero’ che consisteva nel ripulirli e vestirli, insegnare loro le buone maniere, l’uso della moderna tecnologia, la ‘buona novella’ e nel far sì che li diffondessero fra i loro simili, in una sorta di esperimento di civilizzazione (i).

Ed effettivamente era sembrato che gli abitanti di quelle desolate regioni potessero essere passibili di ‘miglioramento’ – di salire lungo la scala della civiltà –, fino a quando, riportati dal Beagle in Terra del Fuoco nel 1832, erano ritornati immediatamente ai modi di vita precedenti, condannandosi alle più basse considerazioni dei successivi osservatori.


Fig.1 York Minster, Fuegia Basket e Jeremy Button,
i tre fuegini sopravvissuti al mutamento di clima e di abitudini.

Sin dalle prime traversate, infatti, rispetto a quello che Charles Darwin giustappunto definì un “lembo estremo dell’America meridionale [dove] l’uomo viv[e] in uno stato di civiltà inferiore a quella di qualsiasi altra parte del mondo” (ii), si era venuta a creare una tradizione di letture marinare che stimolava generali aspettative sulla selvatichezza dei nativi e sulla maestosità del paesaggio.

Quando nel 1875 Enrico H. Giglioli scrisse della prima circumnavigazione italiana della pirocorvetta Magenta, nel suo resoconto espresse chiaramente l’emozione che avrebbe destato in lui il fare rotta in quelle zone:

primavera ancora da compiersi uno degli episodi più interessanti del nostro viaggio, giacché il comandante Arminjon aveva deciso di passare per i canali della Patagonia occidentale e per lo stretto di Magellano, invece di circuire Capo Horn; erano circa 66 miglia da percorrersi in mezzo a terre di un aspetto singolare e grandioso che non ha l’uguale in nessuna altra parte del Globo; e certamente nessuno gli fu più grato di me per una simile decisione, poiché essa aveva risvegliato il mio più vivo entusiasmo. Lo comprenderanno coloro che hanno letto le relazioni di King, di Darwin e di Fitzroy, e quelli che si ricordano del racconto del cav. Antonio Pigafetta, compagno di Magaglianes (Magalhānes) nel primo viaggio intorno al Globo; rammentando Pigafetta, pensai che se il primo Italiano che fece il giro del Globo passò per lo stretto di Magellano, era giusto che lo facesse pure la prima nave dell’Italia unita nel compiere la sua circumnavigazione. Ed io non vedevo l’ora di entrare in quelle splendide gallerie di quadri grandiosi e singolari della Natura (iii).


Fig.2 Incontro con i fuegini. Acquarello di Conrad Martens, disegnatore del Beagle.

Siamo in un periodo in cui per la prima volta l’Italia, unita, si affaccia sugli oceani e si munisce di navi di ‘rappresentanza’ il cui scopo precipuo è quello di stipulare accordi diplomatici, cercare potenziali colonie e ‘mostrare la bandiera’ alle altre grandi nazioni o popolazioni lontane, nonché ai connazionali dispersi per il globo. Dopo una lunga fase di chiusura terrestre, la penisola inizia nuovamente a proiettare i suoi sogni sull'acqua, consumando velocemente l’idea di poter costruire un potere marittimo sul Mediterraneo che possa supportare la sua presenza nel contesto europeo ed internazionale. Si sviluppa così una particolare ‘mistica del mare’ che influenza silenziosamente il rafforzamento della Marina Militare e che gioca un ruolo strategico nel processo di nation building italiano, andandosi ad intrecciare con le prime ambizioni coloniali (iv).

Le relazioni degli ufficiali di Marina della seconda metà dell’Ottocento ci restituiscono numerose descrizioni delle popolazioni incontrate durante queste traversate, permettendoci di analizzare la rappresentazione dell’alterità del tempo e i meccanismi che la influenzano (v). Il passaggio dello Stretto di Magellano, nello specifico, a partire dal primo viaggio post-unitario e dalla relazione di Giglioli, è particolarmente interessante proprio perché, innestandosi su di una tradizione già esistente – tra memoria narrativa, scoperta del nuovo e (ri-)costruzione dello stereotipo –, ne costruisce una ‘nostrana’ che delinea immagini di fuegini e di italiani in un processo dialettico di definizione identitaria.


Gaglieta! Tabaco! Pantalon!”

A un tratto dalla vicina isola Esperanza, verdeggiante di cupa boscaglia, si disegnò per l’aria una sottile colonna di fumo, verso cui dirigemmo gli occhialini: era una piroga di fuegini, e quali altri potevano essere gli umani abitatori di quella romita regione, segregata dal consorzio civile? […] La voce si sparse da poppa a prora, come un baleno, dell’avvicinarsi dei selvaggi, destando per la curiosità un tramestio indescrivibile (vi).

Le parole sono di Giovanni Petella, medico di bordo del Flavio Gioia, che dal 1883 al 1886 effettua una lunga campagna lungo le coste dell’America Meridionale. Nonostante il susseguirsi degli incontri nei due decenni precedenti, la curiosità e l’attrazione per i nativi non sono venute meno, come, d’altronde, la convinzione – già di Darwin –, “che l’abisso fra l’uomo civile ed il selvaggio è di gran lunga più profondo della semplice differenza che passa fra l’animale allo stato di natura e il domestico” (vii).


Fig.3 I fuegini secondo un disegno di Robert Fitz-Roy riportato nel Viaggio intorno al Globo della R.Pirocorvetta Magenta di Enrico H.Giglioli

Le prime descrizioni italiane restituiscono i fuegini nudi, sporchi e deformi – unti di un grasso rancido, i capelli incolti, le fattezze brutali. Commenta Giglioli: “forse i più bassi dal lato psichico di tutti quanti gli indigeni dell’America, anzi, da quanto ho potuto sapere è dubbioso se non concorrano cogli Australiani ed i Negritos per occupare gli ultimi gradini della scala umana” (viii). In quanto bruti nelle loro pratiche matrimoniali, superstiziosi, dediti alla vendita di bambini, incostanti e cannibali, appaiono impermeabili alla civiltà, più vicini agli animali che agli uomini.

In Giglioli più volte il giudizio morale si mescola con quello scientifico, mentre le sue affermazioni, che si basano soprattutto su fonti “spigolate qua e là”, vengono a creare una nuova testimonianza che ha valore referenziale e il potere di influenzare gli sguardi futuri dei lettori e osservatori. In questa costruzione dell’alterità “l’apparente distacco oggettivo della notazione maschera un circolo vizioso nel quale lo sguardo inconsapevolmente etnocentrico di chi è stato nei luoghi e ha travisato quella gente, serve, in realtà, solo a confermare pregiudizi e a costruire stereotipi” (ix). I fuegini, in conclusione, appaiono come degli esseri destinati a rimanere ‘miseri’ in quelle desolate e tremende terre inospitali, e come tali, degni “dell’atto generoso dell’illustre comandante del Beagle, il quale [li] mantenne con sollecitudine paterna” (x).

Proprio su questo doppio asse, animale/uomo e natura/civiltà, si giocano le successive rappresentazioni degli abitanti della Terra del Fuoco e, per contrasto, degli italiani. Quando per esempio dieci anni dopo il viaggio della Magenta, nel 1879, il Regio incrociatore Cristoforo Colombo, sulla rotta di casa, attraversa nuovamente i canali di Patagonia, non solo la descrizione dei tratti fisici dei nativi richiama il volume di Giglioli nell’uso degli aggettivi e del costrutto sintattico, ma la stessa comunicazione con i ‘selvaggi’ è ridotta alle parole che i viaggiatori europei hanno insegnato loro – gaglietta-tobacco e pantalon: poche espressioni che rivelano l’immagine dell’indigeno sviluppata dall’‘occidentale’ sin dal primo incontro, quando interpretando i suoi bisogni – di cibo e vestiti – ha proiettato se stesso all’interno del difficile ambiente della Terra del Fuoco.

L’impressionante rigidità del clima e il fascino di una natura arcigna signoreggiano, oltre che nella realtà, negli scritti degli ufficiali contrapponendosi alla nudità dei nativi, esaltandone la fragilità e facendo emergere le caratteristiche identificative dell’italiano. Petella esplicita al meglio il costruirsi di questa dicotomia, raccontando come all’avvicinarsi dei fuegini nel cuore della notte

[…] tutto l’equipaggio e qualche ufficiale di buona volontà s’erano levati: dalle piroghe partivano latrati di cani, vagiti e grida umane monosillabiche: […] due fragili canotti, sospinti alla corrente e pagaiati, s’erano […] avvicinati a poche spanne dal bordo, [e] vi si potevano scorgere uomini, donne e fanciulli nel freddo squallore della loro nudità. Quei miseri fuegini, protendendo lor braccia verso noi e gesticolando, gridavano grottescamente: ‘gaglieta, tabaco, whisky’, e facevano a gara a chi vogasse più forte per arrivare prima alla scala di bordo. […] Mi è rimasta così vivida nella memoria quella scena di suprema commiserazione, che parmi tuttora di udire le strida scimmiesche imploranti disperatamente soccorso, il vagito dei pargoli e il guaiare dei cani, tutti pigiati gli uni sugli altri: un insieme di un effetto rattristante, eppur così vivo in tanto splendore di così gelida natura; indimenticabile per l’ora e il luogo, per l’inatteso delle persone e delle cose. Parmi ancora di vedere quei nostri bravi e vigorosi marinari all’opera nel mettere a mare a forza di braccia i battelli di bordo… (xi).

Il registro letterario del medico ben rappresenta la triste miseria dei ‘selvaggi’ ma anche, all’opposto, la sottointesa capacità degli europei di coprirsi, di contrastare e controllare la natura. Ma non solo: i marinai appaiono pieni di buona volontà, bravi e vigorosi: mossi da pietà filiale, pronti ad aiutare e compatire, sono i rappresentanti della civiltà, i primi a tendere la mano a quelle specie di uomini, imploranti disperatamente soccorso.

L’immagine positiva dell’italiano si costruisce allora su quella negativa dell’abitante della Terra del Fuoco intrecciandosi ad un senso di superiorità che non viene mai meno, ma che anzi si riempie del linguaggio della compassione: “non riuscirò mai a descrivere il comico di quei tre esseri umani, discendenti dallo stesso padre Adamo – riferisce ancora Petella –, dopo che i marinari li ebbero vestiti di tutto punto con abiti vecchi […]: le risa dei nostri proruppero irrefrenabili, [anche se] prevalse un sentimento generale di commiserazione” (xii). La distanza che separa il selvaggio dal civilizzato può solo superficialmente essere colmata dall’utilizzo del vestiario – è solo un tentativo di assimilazione: di qui le risa, l’ilarità suscitata dai fuegini travestiti, ‘nostri fratelli’, forse, ma alla fin fine ridicoli nelle vesti che a noi possono farli più rassomigliare, in uno spettacolo “misero e grottesco”.

La rappresentazione del fuegino, da Giglioli in poi, sembra quindi caratterizzarsi – oltre che da una sorta di impermeabilità all’osservazione diretta – dall’incapacità di riconoscere l’umanità del nativo (xiii), così vicino all’animale e alla natura da essere difficilmente assimilabile, proprio come il progetto di Fitz-Roy aveva precedentemente mostrato. I fuegini vengono descritti come poveri, affamati, magri, infreddoliti, nudi, miseri, brutti, grotteschi, sporchi, ributtanti, puzzolenti, bestiali e afasici all’interno di un discorso che ne va ad esaltare l’alterità in base a precise dinamiche di delimitazione del ‘noi’: un meccanismo che fornisce il metro di paragone sul quale costruire la rappresentazione identitaria che permette agli italiani di posizionarsi al gradino più alto della scala della civilizzazione.


La distanza della compassione

Sulle rotte che portano a veleggiare per i canali di Patagonia si soffermano dunque – già irrimediabilmente corrotti da una tradizione narrativa che ne stabilisce e seleziona i fotogrammi –, gli sguardi curiosi degli ufficiali della Marina Militare della seconda metà dell’Ottocento. Ma se partire “signifca autoindursi un disorientamento per scandagliare i limiti delle proprie convinzioni”, per l’Italia post-unitaria indica soprattutto un trovare e costruire le proprie convinzioni, in un vero e proprio atto di fondazione e delimitazione. Le immagini già presenti nella precedente tradizione nel giro dei venti anni anteriori allo sviluppo del colonialismo in Africa vengono rifunzionalizzate nel processo di costruzione identitario attraverso un attento gioco di rappresentazioni a contrasto, in cui la compassione, oltre ad essere una delle tante strategie di gestione e com-prensione dell’alterità utilizzate, non è altro che un modo per riempire e camuffare – mantenendolo inalterabile – l’incolmabile divario fra selvaggio e civilizzato.


Note

i) V. Puccini S., “Agli albori dell’antropologia. Lo sguardo sui Fuegini di Enrico Hillyer Gigioli e di Giacomo Bove”, in Salerno A., Tagliacozzo A. (a cura di), Finis terrae: viaggiatori, esploratori e missionari italiani nella Terra del Fuoco, Soprintendenza al museo Etnografico Nazionale Pigorini, Roma 2006, pp. 135-167 e id., “Il nostro e l’alieno. Rappresentare la diversità nell’Europa del XIX secolo”, in Uomini e cose, CISU, Roma 2007, pp. 3-42.

ii) Darwin C., Viaggio di un naturalista intorno al mondo, Einuadi, Torino 1989, p. 214.

iii) Giglioli E.H., Viaggio intorno al Globo della R.Pirocorvetta Magenta negli anni 1865-66-67-68, relazione descrittiva e scientifica pubblicata sotto gli auspici del Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, con una introduzione etnologica di Paolo Mantegazza, Ricordi, Milano 1875, p. 919.

iv) V. Monina G., La Grande Italia marittima. La propaganda navalista e la lega navale italiana 1866-1918, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008

v) L’analisi delle rappresentazioni dell’alterità presenti nelle relazioni di viaggio della Marina Militare della seconda metà dell’Ottocento è oggetto della tesi di dottorato della scrivente, di cui a breve uscirà il volume.

vi) Petella G., “La natura e la vita nell’America del Sud. Impressioni di viaggio”, in Rivista Marittima, 1889/I: 74.

vii) Ivi, p. 79. “Non avrei mai pensato quanto fosse grande la differenza fra l’uomo civile e quello selvaggio. Essa è maggiore di quella fra un animale selvatico e uno domestico” (Darwin, Viaggio di un naturalista, cit., p.191).

viii) Petella, “La natura e la vita nell’America del Sud”, cit., p. 79.

ix) Puccini, “Agli albori dell’antropologia”, cit., p. 153.

x) Giglioli, Viaggio intorno al Globo, cit., p. 951.

xi) Petella, “La natura e la vita nell’America del Sud”, cit., pp. 76-77.

xii) Ivi, p. 79.

xiii) V. Todorov T., La conquista dell’America. Il problema dell’”altro”, Einaudi, Torino 2005 [ed. or. 1982].

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