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n. 4 / gennaio 2014

Black Mirror o della biopolitica postdemocratica

 

 

Salvatore Cingari
Docente di Storia delle Dottrine Politiche
Università per Stranieri, Perugia

Wikipedia definisce Black mirror una serie tv sulle trasformazioni che le nuove tecnologie stanno imponendo alla vita delle persone. Con tipica rimozione del mainstream, viene quindi occultato il nesso saliente fra i processi di incarnazione biopolitica delle nuove tecnologie e dei nuovi media e l’erosione della cittadinanza democratica con il dilagare dell’egemonia neo-liberista, rappresentati con lucida potenza in questa “serie antologica” di produzione inglese, uscita per due stagioni in tre puntate per volta di quasi cinquanta minuti l’una, sempre con personaggi e attori diversi.

La puntata più direttamente “politica” è andata in onda proprio il giorno delle ultime elezioni nazionali italiane (quelle che hanno consacrato il movimento di Grillo come soggetto politico di massa), non si sa se intenzionalmente. E’ la storia di un personaggio dei cartoni animati, una specie di orsetto, Waldo, che per la sua retorica dissacrante e volgare, diventa in breve l’idolo di adulti e bambini. L’attore che gli presta la voce è un uomo in crisi sentimentale e in difficoltà con il lavoro, che improvvisamente trova riscatto nella clamorosa notorietà del personaggio. Contemporaneamente, a causa di uno scandalo sessuale che coinvolge il rappresentante conservatore di un collegio, vengono indette elezioni suppletive che squadernano l’attuale svuotamento della pratica democratica: l’elettore è ridotto a puro spettatore e consumatore di marketing pseudopolitico. I laburisti – che non sanno più ormai chi e cosa rappresentino - decidono il loro candidato attraverso nuclei di valutazione aziendalisti di blairiana memoria, finendo per scegliere una aspirante attrice dichiaratamente in cerca di notorietà e dichiaratamente autrice di un omicidio. Il candidato conservatore è invece, più classicamente, un privilegiato che finge di essere vicino alla “gente”. Ad un certo momento i produttori del cartone animato decidono che avrebbe giovato ai profitti lanciarlo come terzo candidato, dato che il suo irriverente “fuck off” sembrava assecondare la delusione e la protesta verso la politica del tempo. Una nuova politica della rete appare all’orizzonte: le decisioni possono essere prese in base al numero dei click (come su you tube), in una deriva maggioritaria che enfatizza e stravolge il momento procedurale liquidando la sostanza della democrazia. Alla fine vincerà di poco il candidato conservatore, mentre Waldo – proiettato su grandi schermi negli spazi urbani del collegi - arriverà secondo superando il candidato laburista. Ma i servizi segreti americani hanno già annusato le potenzialità dell’esperimento, basato su un cambiamento fine a se stesso che non spaventa i ceti medi, e propongono al produttore del programma di lanciare il prodotto sull’agone politico in scala globale, iniziando ovviamente dal Sudamerica (il cortile di casa che da qualche tempo si sottrae alle ingiunzioni imperiali): il martello antipolitico può dare la definitiva mazzata alla res pubblica, inaugurando l’assoluto regno degli interessi della merce. L’attore assume dolorosamente coscienza del meccanismo di cui è fondamentale ingranaggio: la sua è mera rottamazione antipolitica, incapace di prospettare una rivoluzione. Decide dunque coraggiosamente di dire no, rinunciando ai soldi e al successo. Ma la sua ribellione è vana. La storia finisce in uno scenario da grande fratello: Waldo è proiettato in schermi giganti della città, come un’icona dittatoriale che domina su tutto il pianeta, insieme a slogan come “credere”, “speranza”, “cambiamento”. L’attore, ormai ridotto a vivere da barbone, si scaglia contro l’immagine, ma viene manganellato dalla polizia con brutale violenza.

La politica-marketing è al centro anche di un’altra puntata della serie. Un giorno il primo ministro inglese è svegliato da una telefonata che annuncia il rapimento di una giovane, membro della famiglia reale. Raggiunta l’unità di crisi gli viene spiegato che i rapitori chiedono, in cambio della vita della ragazza, che il premier faccia sesso con un maiale in diretta tv. Inizialmente sembra che tutti escludano l’eventualità di piegarsi al ricatto, ma, dopo falliti tentativi di liberazione e dopo che i video-spettatori e internauti assistono a un video in cui sembra che il rapitore tagli un dito alla ragazza, i sondaggi maggioritariamente pendono verso il sacrificio corporale del leader del governo. Quest’ultimo, nonostante l’incredulo disgusto e la profonda crisi della moglie, si piega infine al ricatto, producendosi in una disperata performance seguita da milioni di spettatori in attonita contemplazione. La ragazza viene liberata prima che l’evento abbia luogo, ma su questa tempistica lo staff del premier fa calare il segreto. In realtà il dito amputato era appunto del dissidente misterioso che, con eroica coerenza da kamikaze, si impicca. Si trattava di un artista a cui era stata chiusa anzitempo un’esposizione perché giudicata scandalosa e che aveva voluto così mostrare l’ipocrisia moralistica di un potere pronto a censurare la creatività (il premier quando sa del rapimento, del resto, oltre a pensare a terroristi contro il debito del terzo mondo sospetta anche di rivendicazioni a favore delle “cazzo di biblioteche”) ma anche a mercificare se stesso se lo richiede la logica del consenso. E mentre l’artista sacrifica il corpo e la vita per la verità, il premier si reifica per il falso generalizzato, così come la vita, anziché trascendersi nell’arte, desublima quest’ultima, facendosi spettacolo collettivo. Viene denunciata altresì in modo eclatante la servitù delle istituzioni ai sondaggi di opinione, la videocrazia imperante: ma la rivolta, come nella puntata descritta in precedenza, viene messa sotto scacco. Mesi dopo nessuno più si ricorda del ribelle, mentre la rampolla reale è viva, vegeta e serena, intenta alla sua vita dorata di sempre sotto i pubblici riflettori. Il premier, dopo la crisi di vomito successiva all’anomalo rapporto, è quanto mai in pista, con la moglie a fianco (non priva di qualche ombra nel volto però, per il sospetto di non essere così unica per il marito e per la dolorosa percezione di come nella vita di quest’ultimo sia costitutivo il compromesso), in un quadretto familiare edificante. La sua carriera ha superato l’ostacolo e va a gonfie vele. Il sistema ha respinto e inghiottito l’ennesimo attacco al suo cuore spettacolare.

Anche un’altra puntata di black mirror finisce nello scacco. Il “sistema” riesce a metabolizzare la rivolta, a sussumerla nel proprio messaggio così come la pubblicità riesce ad appropriarsi dei segni del dissenso facendone parole del marketing. Mentre nelle due storie di cui si è detto si tratta di una fantapolitica in cui la sporgenza oltre il presente è appena percepibile con l’effetto di rendere quelle storie quasi realistiche, in questo caso si tratta di uno scenario anche fantascientifico e distopico: le persone si svegliano in stanzette piccole come celle, con le pareti di vetro su cui appaiono continuamente video, pubblicità e “tv spazzatura”, spesso a sfondo sessuale. Subito dopo si recano a una sorta di catena di montaggio schiavile: devono azionare una cyclette guardando contemporaneamente le suddette immagini per l’intera giornata, producendo così l’energia per tutto il sistema, claustrofobico come un liquido panopticon benthamiano. Solo le star del video riescono a uscire all’aperto: una di queste, in un’ intervista, afferma pietisticamente che “tutti dovrebbero poter vedere il mondo vero”. Chi non regge alla fatica retrocede a fare l’inserviente, in un mondo in cui la pulizia è fondamentale, in quanto l’ordine più assoluto deve regnare per garantire la massima efficienza. La retribuzione consiste nell’acquisizione di punti, i “meriti”, che vengono decurtati se ci si rifiuta di guardare le immagini. Si tratta ovviamente di una grande metafora degli attuali processi in corso, in cui il ceto medio va scomparendo, salari e stipendi perdono sempre più potere d’acquisto e i diritti dei lavoratori retrocedono progressivamente minacciando un ritorno all’Ottocento primo industriale e poi indietro, appunto, alle forme di produzione di tipo servile. Il sistema si auto legittima moralmente facendo credere che quanto guadagnato è ciò che si è “meritato”. L’inganno è reso possibile anche dalla capacità delle immagini spettacolari di assoggettare le persone, colonizzando totalmente la loro vita interiore: qui lo scarto “post-moderno” rispetto alle passate rappresentazioni di spettacolare concentrato fino al Grande Fratello. Il sesso non solo è mercificato ma è ridotto ad un dispositivo di controllo, sia nel suo essere totalmente esibito, sia nel suo assorbire l’emotività dei soggetti come gli psicofarmaci ch’essi assumono per ogni bisogno psichico. La vita di ognuno è svuotata di vita reale: la stessa funzione del consumo è orientata verso gli accessori dell’avatar personale. Siamo un passo oltre, cioè, la banalizzazione repressivo-desublimante del reality.

Il protagonista della storia si innamora di una collega, e questo evento determina una sorta di dinamica sul tipo delle Conseguenze dell’amore di Sorrentino(1). La ragazza ha un sogno: andare ad “X factor”, ma non ha sufficienti punti per partecipare. Il suo innamorato le offre un piccolo tesoretto di “meriti” ereditato dal fratello recentemente scomparso. Lei è una bellezza acqua e sapone, con una voce dolcissima. Si esibisce di fronte ai tre giudici, in uno scenario in cui la cultura darwinista della valutazione meritocratica è commista alla volgarità del gusto. Lo spirito del programma – ricordano i giudici – è non a caso la più “spietata sincerità”: ciò richiama l’idea che in ultima analisi la meritocrazia è russovianamente la sostituzione del privilegio basato sull’artificio sociale con quello determinato dalla natura (il talento, la capacità di lavoro), riproponendo così una gerarchia su base, appunto, “naturale” (i forti, bravi e belli prevalgono sui deboli, incapaci e brutti) di tipo sostanzialmente razzistico: che, come il razzismo, si dimostra poi basata su assunti “teologici”. Gli stessi due protagonisti, in fondo, benchè inizialmente animati da sentimenti trascendenti la routine disumanizzata del nuovo panottico, emergono di fatto senza nemmeno accorgersene – cioé, naturalmente – sui compagni meno dotati e “sfigati”, destinati ad essere muti spettatori.

Seguendo una ormai avanzata pratica dell’autenticità (altro mito romantico di natura metafisica), uno dei giudici inizia a fare pesanti avance alla ragazza, proponendole infine di esibirsi come pornostar nei suoi programmi, nell’entusiasmo generale. La ragazza accetta per emanciparsi dalla vita alienante a cui è costretta. Il protagonista vede dunque sfumare il suo dono in un atroce supplizio: la sua amata proiettata sui vetri della propria cameretta a fare sesso hard. Ma non finisce qui. Egli riesce a conservare un pezzo di vetro aguzzo e inizia a risparmiare punti a costo di digiunare, preparando un numero di ballo da proporre a X factor. Giunto il suo gran giorno interrompe l’esibizione e in diretta minaccia di tagliarsi la gola col vetro se non viene ascoltato. Inizia quindi un discorso memorabile, in cui denuncia lo sfruttamento a cui sono costrette le persone ad opera di un’oligarchia che non ha alcun rispetto della vita umana e che tutto mercifica sull’altare del successo e del profitto, rendendo le persone insensibili al dolore e alla violenza e protese al consumo di oggetti futili. Ma uno dei giudici fa la mossa finale: si complimenta con lui e gli propone di tenere un programma di prediche nel suo canale. “E’ indubbiamente il discorso più sincero mai pronunciato qui (…) tutti possiamo essere d’accordo”. La libertà d’opinione, resa possibile dal meccanismo di sussunzione, viene così assorbita nel pensiero unico. Lui accetta, ovviamente per emanciparsi: e tutte le volte che si esibisce ripete il suo gesto di rivolta puntandosi a salve il pezzo di vetro contro la giugulare.

La meritocrazia – termine coniato in senso distopico dal laburista di sinistra Michael Young, che prima di morire ebbe il tempo di fare in proposito una lezione a Tony Blair(2) - è ancora una volta sotto accusa in un’altra puntata della serie. La storia si apre con un colloquio di lavoro, in cui il candidato è sottoposto ad un’apparentemente amabile valutazione. In realtà l’uomo ripercorre ossessivamente tutti i momenti dell’esame, entrando in una profonda crisi di autostima che avrà le sue conseguenze nella vulnerabilità con cui affronterà i suoi problemi di coppia. Valutare e punire è del resto intitolato un aureo libretto di Valeria Pinto in cui si interpretano foucaultianamente gli attuali sistemi di valutazione trasposti dalle aziende private al sistema pubblico e in particolare a quello universitario, come dispositivi di controllo biopolitico nell’era neo-liberista in cui ognuno deve essere imprenditore di se stesso ma anche, di se stesso, primo poliziotto(3). “Il nuovo Stato-servizio o Stato-capacitante – ha scritto di recente Pierre Rosanvallon - non essendo più un distributore di sussidi e un amministratore di regole universali, è infatti portato in diversi modi a pervadere la vita degli individui, a valutare i loro comportamenti”(4). Lo Stato post-democratico e neo-liberista è costitutivo del soggetto quanto e più del vecchio Welfare state. Il fulcro del racconto è infatti un'innovazione tecnologica “post-umana”: un microchip piantato sottopelle che consente di registrare i momenti vissuti e poterli ripercorrere intimamente o proiettarli per una visione pubblica. In tal modo è possibile ad esempio rivedere l’esame del protagonista in modo che tutti diano un loro parere, in una “valutazione della valutazione” che ricorda ad esempio i tautologici processi di recente introdotti nel sistema universitario italiano. All’inizio della storia il protagonista concorre per un ruolo da avvocato nelle cause dei figli che chiedono ai genitori un risarcimento per non essere stati seguiti sufficientemente, con successive ripercussioni nel rendimento lavorativo: la valutazione, insomma, interviene anche a dissolvere i legami affettivi, sull’altare di un risarcimento che quantifichi il danno prodotto. Lo stress valutativo e la possibilità di recuperare il passato di ognuno, violandone l’intimità personale, genera una crisi di coppia che porta alla visione del tradimento della moglie, forse anche all’origine della nascita del loro unico figlio. Una volta separatisi, però, i ricordi tornano a martellare la mente del protagonista che, per poter continuare a vivere, deve necessariamente strapparsi il dispositivo dal collo, in una scena finale di drammatico autolesionismo. L’episodio è anche in qualche modo “baumaniano”. L’amante della moglie è rappresentato come un uomo “liquidamente” superficiale, per cui i rapporti di coppia son sempre falsi e inautentici e non esiste fedeltà(5). “E’ una roba politica?”, egli chiede peraltro all’unico personaggio che si sottrae alla dipendenza del dispositivo di registrazione dei ricordi: una donna che poi si porterà a letto, in un ennesimo assorbimento dello scarto e del dissenso.

Ma il controllo biopolitico sconfinante nell’intimità personale, che radicalizza quanto inizia ad accadere oggi con i social network, è di fatto ‘oggetto della puntata della serie con toni gotici e quasi venati di horror. Si tratta di una coppia di giovani sposi, molto affiatati sebbene con qualche problema di comunicazione. Lui è sempre attaccato al display dello smartphone, assorbito dalla rete, sempre più incapace di interagire con l’altro, con riflessi sulla loro vita erotica. Improvvisamente lui muore in un incidente d’auto. Nella disperazione dei giorni successivi, un’amica propone alla protagonista di superare il lutto iscrivendola ad un sito a pagamento che l’avrebbe sollevata dal dolore. Lei sulle prime non accetta, ma poi, scoprendo d’essere incinta, decide di provare. E’ un sistema che utilizza tutte le informazioni lasciate in rete dal deceduto, in modo da ricostruirne il profilo digitale con cui poter continuare a interagire. Un database risponde come se lo scomparso fosse ancora in vita. Lei così riprende fiducia, mentre cresce in grembo il piccolo, finché non scopre che il servizio può offrire ancora più qualità: e cioè riprodurre la voce del defunto, che potrà telefonarti in qualsiasi momento – ovviamente a pagamento – e parlare con te. Ma non è finita: lo stadio finale sarà ancora più raffinato, sebbene ancora più costoso. Viene recapitato in casa un replicante con le sembianze del compagno, che parla e si muove come una persona viva, sebbene ovviamente senza mostrare la flessibilità emotiva di una persona vera. Dopo il primo momento di gioia, coronata anche da un rapporto erotico molto soddisfacente, date le impostazione dello zombi e la sua libertà da condizionamenti mentali, lei si accorge di essere preda di un inganno: chiede al clone di suicidarsi buttandosi da una scogliera, ma alla fine non riesce a farlo morire. L’ultima scena si apre con la protagonista che torna a casa con la bambina già grande. Sono passati una diecina d’anni e il replicante è ancora in soffitta: non proprio un papà, ma una sorta di grande pupazzo animato. Abbastanza però, lo si capisce, per impedire a lei di superare il peso del passato. Come la storia inutilmente erudita per Nietzsche, lo zombi schiaccia la vita di lei, ovviamente a pagamento -, ancor più pesantemente di quanto la rete facesse con la vita di lui, prima dell’incidente. Il ciclo del consumo genera passioni tristi e non soddisfa mai, in un eterno ritorno dell’alienazione. Nell’acquario di facebook si intitola un libro (anche questo non poco aureo) sul social network come dispositivo di controllo a fini di profitto, attraverso il profiling e i cookies(6): questa puntata di Blackmirror parla proprio di questi processi, radicalizzati in un incubo fanta-tecnologico. Del resto esistono luoghi in cui vengono conservate tutte le nostre tracce sulle rete, in immensi archivi soggetti a proprietà privata (altrui), che dall’alto sembrano proprio cimiteri. Dalla biopolitica alla tanatopolitica.

Ma il più angoscioso dei racconti è l’ultimo che dobbiamo descrivere. Una donna si sveglia al piano superiore di una casa, senza ricordarsi perché è lì e chi è. Al piano di sotto foto di famiglia sembrano rivelare la presenza di un compagno e di una bambina. Uscita all’aperto chiede aiuto, ma le persone le stanno a distanza senza parlare, filmandola con i cellulari. Ad un certo momento un uomo scende da un auto, con un cappuccio e un fucile, iniziando a spararle addosso. La protagonista trova due alleati, che, nei momenti di pausa della frenetica fuga, le rivelano cosa è successo, in un classico scenario da film catastrofico: un giorno in tv, sui computer, sui cellulari è andata in onda una strana immagine, che ha ipnotizzato quasi tutti gli spettatori che diventano filmaker passivi, tranne una minoranza che rimane immune e un’altra, i cacciatori, che approfittano per far tutto quello che vogliono, depredando e uccidendo. Fin qui la lettura del racconto sembra chiara: una metafora della divisione del mondo fra spettatori passivi e un’élite di homini oeconomici che approfitta di questa passività per dar sfogo ai propri animal spirits. Caduto uno dei tre, le due superstiti sfuggono ad un cacciatore che le stava per squartare e raggiungono la centrale dove veniva emesso il segnale ipnotico, con lo scopo di distruggerla. Ogni tanto nella protagonista riemergono labili e fulminei frammenti di ricordo, con figure familiari e luoghi già visti. Mentre son sul punto di far saltare in aria la centrale arrivano altri cacciatori e la battaglia esplode di nuovo, quando ecco il colpo di scena: si aprono le pareti scoprendo una platea di plaudenti filmaker, mentre solo la protagonista viene ammanettata e fissata ad una sedia. La verità viene a galla. Lei si trova in un”parco giudiziario” e cioè una specie di zoo in cui vengono rinchiusi pericolosi criminali, a cui viene azzerata la memoria in modo da coinvolgerli in azioni adrenaliniche da far vivere ai visitatori, che pagano tanto di biglietto. Così, oltre ad alimentare l’industria dell’intrattenimento, il parco svolge anche la funzione penale, infliggendo un supplizio da girone infernale. La donna aveva, insieme al fidanzato, rapito e poi torturato e ucciso una bambina, filmando l’esecuzione. Ora è condannata a rivedere ogni giorno quelle immagini, associandole a dolorose scariche elettriche, per poi, con la memoria annebbiata, diventare inconsapevole protagonista di un’ action movie. Anche la giustizia è quindi assorbita dallo spettacolo e diventa merce, così come la devianza pura distrazione mostruosa in cui nessun diritto viene riconosciuto al condannato. La pena torna quella dell’epoca delle streghe: ma il rogo è più durevole e raffinato, da far impallidire il folgorante inizio di Sorvegliare e punire di Michel Foucault. Lo Stato neo-liberale si fa infatti “stato penale”: oltre che sulla “meritocrazia” esso si legittima con la “paura della criminalità”(7). Ma mentre per tutta la puntata sembra che sia ancora possibile entrare nella casamatta del potere “concentrato” di un grande fratello novecentesco, che si può attaccare e sconfiggere, il colpo di scena finale ci riporta alla realtà del debordiano spettacolo diffuso e integrato che produce la nostra stessa vita.


*I miei più vivi ringraziamenti per Alonso Pareja e Roberto Nisi (a quest’ultimo si deve anche la selezione del corredo fotografico), miei studenti all’Università per Stranieri di Perugia, che mi hanno fatto conoscere Black mirror. Con loro è iniziata l’analisi dei temi politici e filosofici di questi testi, proseguita anche con i loro compagni del corso di storia del linguaggio politico e del suo “laboratorio”. Un grazie anche ad Antonio Fabbri, Elisa Fiorucci (dottoranda di ricerca presso l'Università per Stranieri di Perugia) e Alessandro Simoncini (e al libro di quest'ultimo, Governare lo sguardo: Roma, Aracne, 2013).

1) Italia, 2004.

2) Down with meritocracy, the guardian”, 29 giugno 2001.

3) V.Pinto, Valutare e punire, Cronopio, Napoli, 2012.

4) P.Rosanvallon, La società dell'uguaglianza (2011), Roma, Castelvecchi, 2013, p.268.

5) Z.Bauman, Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2003; Amore liquido, Roma-Bari, Laterza, 2006.

6) Collettivo Ippolita, Nell’acquario di facebook. La resistibile ascesa dell’anarco-capitalismo, Ledizioni, 2012.

7) Cfr.J-Simon, Governo della paura (2007), Cortina editore, Milano, 2008.

 

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