La dicotomia stato/mercato: welfare, crisi economica e deficit democratico
di Gianpasquale Preite Iconocrazia 14/2018 - "2008. Lo spartiacque", SaggiIntroduzione
La modernità contemporanea trova la propria descrizione in uno scenario politico, economico e sociale caratterizzato da relazioni complesse di interdipendenza che non possono essere trattate sulla base di semplici processi causa-effetto.
L’ultimo decennio coincide con una elevata concentrazione di questioni complesse e istanze (deficit pubblico, disoccupazione, crisi finanziaria, recessione economica, relatività dei diritti, indebolimento della tradizionale forma di stato sociale) che evidenziano gli effetti generati da forti interdipendenze tra stato e mercato e che devono essere analizzate in quanto tali, se non si vuole correre il rischio di esporre al fallimento proprio quelle istituzioni del welfare che si sono affermate come la più importante conquista del Novecento.
È noto che le crisi finanziarie ed economiche producono pesanti conseguenze sulla capacità di spesa pubblica, sul livello dei servizi e sulla tutela dei diritti fondamentali, indebolendo lo stesso sistema di garanzia dei diritti sociali e di tutela del benessere collettivo – mediante la produzione di beni pubblici – che è alla base dei presupposti fondativi dell’agire istituzionale. Altrettanto noto, tuttavia, è l’effetto generato da livelli elevati della spesa pubblica che, se da un lato generano consenso, benessere e aumento degli investimenti pubblici, dall’altro hanno ricadute inflazionistiche ed effetti di rallentamento sugli investimenti privati (Etien 2013, 13).
L’ambivalenza che ogni fenomeno socio-politico ed economico genera in termini di effetti è una misura dello spazio dicotomico in cui si colloca il rapporto stato/mercato. Si tratta di una convivenza problematica storicamente tesa tra limiti e potenzialità, in cui gravitano le categorie autorità-libertà, diritti-sicurezza, individuo-società e si alternano visioni a sostegno della minimizzazione del ruolo del mercato o del ruolo dello stato, come sintesi di policy unidirezionali il cui effetto più immediato è una interpretazione antropomorfica di regolarità in sé instabili (Mazzotta 2013, 15). La stessa varietà delle forme di capitalismo, con le sue continuità e discontinuità, è una manifestazione dell’instabilità sottesa a quegli stessi fenomeni che si assumono come prevedibili e governabili. La globalizzazione del sistema economico, la liberalizzazione del movimento dei capitali, l’esistenza di sovraistituzioni politiche e monetarie, collocano la questione del rapporto stato/mercato ad un livello in cui emergono paradossi che coinvolgono la rappresentatività della democrazia (Arrow 1951).
La crisi sistemica del 2008, che ha coinvolto, con diversi livelli d’intensità, gli assetti finanziari, economici, sociali e politici del mondo ed in particolare di tutti i paesi dell’eurozona, ha messo alla prova diversi modelli e teorie che tuttavia non sono stati sufficienti ad interrompere il suo lungo ciclo depressivo. Questo è un aspetto su cui riflettere e rispetto al quale diventa fondamentale recuperare le lezioni del passato per orientarsi nel presente, per comprendere le dinamiche in atto, per vincere i limiti di soluzioni dettate dall’assunzione di relazioni causali che celano l’intrasparenza dell’aumento delle soglie di disuguaglianza e dei loro dispositivi governamentali.
Stiglitz descrive il primo decennio del ventunesimo secolo come caratterizzato da un movimento asimettrico che, da molti punti di vista, rappresenta un pesante fallimento sociale ed economico (Stiglitz 2011). In termini analoghi si esprime Krugman che parla di “danno” sul piano umano, causato dai «comodi pregiudizi ideologici e politici del sistema» (Krugman 2012, 31) che non hanno saputo prendere in considerazione le lezioni della storia.
Alla luce di queste considerazioni, lo scenario economico-politico della modernità contemporanea sembra delinearsi lungo una traiettoria di contrapposizioni. Da un lato si assiste alla riproposizione dell’idea di trade off tra efficienza ed equità, tra competitività e diritti, tra produttività e giustizia, orientando (e condizionando) le decisioni della politica in direzione di quel retrenchement del welfare state inattuato nel ventennio precedente (Pennacchi 2011); mentre dall’altro lato si apre una riflessione che vede pubblico e privato in termini di complementarietà in un’inedita forma della distinzione che potrebbe tradursi in un impegno per la giustizia sociale e per un profondo ripensamento dei processi democratici.
In questa prospettiva il presente articolo si propone, attraverso il recupero delle lezioni del passato, di discutere il “rinnovamento” delle categorie di riflessione critica del capitalismo e dei processi di elaborazione dei programmi sia di politica sociale, sia di politica economica in rapporto ai futuri assetti istituzionali e governamentali. Ripensare il ruolo della politica e dell’economia per superare la crisi, significa agire sul livello di aspettative deluse (non solo dei mercati) e riprogettare nuove strategie dell’inclusione in termini di equità e giustizia sociale, sebbene l’unica possibilità di vincolare il futuro è il rischio.
1. Stato e mercato a partire dall’opera di Adam Smith
Quale sia o debba essere il ruolo dello stato nell’economia è una preoccupazione che da sempre alimenta un intenso dibattito che contrappone liberismo economico e interventismo statale.
Sin da Aristotele, il fine principale dello stato (polis) è rappresentato dal bene comune a cui la naturale associazione degli uomini tende. Il mezzo di cui lo stato si serve per raggiungere questo fine è la costituzione, il complesso delle leggi che regola il buon andamento e lo sviluppo delle virtù civiche come il progresso, la concordia, l’aiuto reciproco, la cultura, il benessere e la pace (Laurenti 2005 [Aristotele, A2, 1252b 27]).
La dicotomia pubblico/privato ha radici antiche riconducibili all’impiego del capitale a fini produttivi (cardine della vita economica), è però solo con l’età moderna, in particolare con il pensiero liberale del diciottesimo secolo, che la distinzione tra sfera pubblica e privata assume la valenza di una polarizzazione che mantiene distinto il potere statale dallo spazio privato del mercato e della società, una prerogativa amplificata dal notevole ascendente del pensiero di Adam Smith che porta a riflettere sul ruolo dello stato nel mercato; fattore, quest’ultimo, che segna convenzionalmente la nascita della moderna economia politica.
Con la pubblicazione dell’opera dal titolo An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations (1776), nota come Ricchezza delle nazioni, Smith si trova ad osservare un contesto sociale in cui sussistono moderne “città mercantili” e quelle impostate sul modello dell’Ancien régime. Egli asserisce che «nelle città in cui il sistema di relazioni economiche è basato sullo scambio tra capitale e lavoro, le dinamiche socio-economiche che si sviluppano producono un incremento della ricchezza materiale, i lavoratori sono in generale operosi, sobri e prosperosi» (Smith 1973, 330) e maggiormente favoriti da processi di emancipazione. Essi, attraverso lo sgretolamento delle tradizionali forme di subordinazione e grazie al lavoro, apprendono un nuovo modo di vivere in libertà divenendo attori del loro destino sociale (Ivi, 340). Ogni individuo, perseguendo il proprio interesse personale, contribuisce all’interesse (e quindi al benessere) collettivo. Le asimmetrie strutturali che caratterizzano il nuovo sistema socio-economico ˗ quindi il rapporto tra capitalisti e lavoratori ˗ non vengono ignorate , ma assumono una connotazione eticamente sostenibile, poiché producono risultati considerati vantaggiosi per l’organizzazione sociale nel suo complesso (Ivi, 67, 78).
Sotto quest’aspetto emerge, nel pensiero smithiano, l’orientamento di matrice illuminista o fisiocratica , in cui i tratti distintivi del nuovo ordine socio-economico sono da ricondurre ad alcuni elementi fondamentali: il ruolo attivo degli individui ormai usciti dallo «stato di minorità» (Kant 1995, 162); la lotta contro la visione culturale del vecchio ordine sociale (Turgot 1978, passim; Condorcet 1974, 185); le azioni di contrasto nei confronti di una politica lenta e inadeguata e conseguentemente all’inefficacia delle istituzioni politiche ereditate dal passato (Rousseau 1972, 319). Si tratta, tuttavia, di un momento storico che evidenzia un rapporto stridente tra evoluzione socio-economica e adeguamenti politico-istituzionali, rispetto al quale si rende evidente l’insofferenza nei confronti di un sistema politico che produce apparati burocratici lenti, complicati e intrasparenti, che finiscono per svolgere una funzione repressiva, che producono rallentamenti generalizzati di qualsiasi processo innovativo e che sostengono invece processi produttivi ormai incompatibili con l’economia di mercato (Landes 1978, 179-180).
L’esigenza di affermare un allineamento tra il nuovo tessuto economico-sociale e gli adeguamenti politico-istituzionali è alla base di una spinta ˗ distorta ˗ che condurrà verso ideologizzazioni della dottrina economica finalizzate a preservare i caratteri del fondamentalismo con cui sono costruiti i processi di legittimazione del liberismo economico e, quindi, l’assunzione del principio che se qualcosa nel mercato (e quindi socialmente) non funziona, l’unica spiegazione possibile è che il mercato non è abbastanza libero. Si tratta, tuttavia, di un approccio estremo, frutto di un’interpretazione errata dei principi di libertà economica, che sostiene l’eliminazione di qualsiasi forma di ingerenza da parte dello Stato nell’economia come prescrizione universalmente valida per lo sviluppo (Preite 2017) e che, sebbene rispondente all’idea di «mano invisibile», non corrisponde tuttavia all’impostazione teorico-concettuale del liberismo smithiano. Smith afferma chiaramente nella Wealth che l’appropriatezza del comportamento individuale non può prescindere dalle regole di comportamento stabilite e socialmente condivise all’interno di uno Stato; egli non considera il sistema politico scisso da quello economico, il suo nuovo ordine capitalistico non è un mondo senza Stato, ma un ordine i cui elementi di novità economico-sociali non possono essere ricondotti allo Stato (Gioia 2016, 214) che invece deve svolgere funzioni ben precise ˗ doveri istituzionali ˗ come la sicurezza sociale (interna ed esterna), l’amministrazione della giustizia, la realizzazione di opere pubbliche e infrastrutture, ovvero funzioni che non possono essere svolte da un individuo o da un gruppo di individui, anche perché i profitti ottenuti non potrebbero mai compensarne ˗ in termini di remunerazione ˗ le spese sostenute per realizzare questi obiettivi “istituzionali” (Salvucci 1966, 39).
In altri termini, Smith, pur riflettendo sui limiti del sistema politico rispetto alle trasformazioni in corso, non osserva la società dei suoi tempi alla luce della contrapposizione generale tra organizzazione statuale e organizzazione socio-economica; ma delinea una geometria dello spazio politico che è molto più complessa delle descrizioni strumentalizzate di numerosi suoi interpreti (Kemp 1981, 122). Non a caso egli pone in primo piano tanto il tema del superamento del vecchio modello statuale, quanto la necessità di uno Stato sovrano «in grado di risolvere i problemi determinati dalla dinamica del mercato e dalla strutturale asimmetria di posizioni tra classi e individui» (Gioia 2016, 212); una «società industriale ha bisogno di una cornice di servizi pubblici perché possa funzionare senza disagio sociale» (Ashton 1973, 147) .
Se si considera quest’orientamento, allora risulta priva di fondamento l’interpretazione di un sistema cosiddetto del laissez faire privo di regole, controlli e orientamento politico.
Questo è il quadro generale rispetto al quale si delinea un «moderno» teso tra liberalismo (teoria dello stato liberale) e liberismo (teoria dell’economia di mercato) (Sartori 1987), sebbene, come osserva Friedrich August von Hayek, tale distinzione sia propria della tradizione europea di tipo continentale o costruttivistico e non già della tradizione britannica, per la quale i due liberalismi sono inseparabili, anche se, la convergenza verso postulati essenziali ha favorito la diffusione di un movimento apparentemente unitario che si contrapponeva alle concezioni conservatrici e autoritarie (Hayek 1988, 134-151). Ciò che il liberismo economico abbinato al pensiero liberale e alle «progenie del liberalismo» assicura è, dunque, una diffusione socio-economica del potere, in altri termini, «i sudditi diventano cittadini solo all’interno di strutture sociali che disperdono il potere» dando vita a poteri intermedi e controbilancianti (Sartori 1987, 143-144).
L’assunto che diviene essenziale per il liberismo è l’individualismo ontologico che porta «necessariamente con sé un egoismo etico e un relativismo dei valori […], come già sosteneva Bernard de Mandeville, ogni preteso altruismo è un assurdo: di fatto non esiste (gli individui sono fondamentalmente egoisti) ed è comunque impossibile sia calcolarlo, sia realizzarlo. Al più possiamo coltivare quello che si potrebbe chiamare un egoismo lungimirante, ovvero uno schietto utilitarismo: cerco di tener conto dei tuoi desideri espressi, perché questo favorirà alla lunga anche i miei» (Sini 1995, 25).
Con Smith il liberismo raggiunge pienezza e rigore concettuale. La svolta compiuta dal sistema smithiano rappresenta il superamento dell’antinomia individuo-società. Il motivo dell’azione umana è l’interesse personale, ma nella misura in cui l’agire persegue scopi individuali e consapevoli unitamente al raggiungimento di obiettivi spontanei, non razionali, che generano norme di regolazione dei rapporti sociali, e quindi, relazioni giuridiche che devono essere rispettate per rendere possibile il perseguimento dell’interesse personale (Infantino 2008, 20) nell’agire economico e che, inconsapevolmente appunto, porta al miglioramento del benessere collettivo senza necessitare dell’intervento di una qualsiasi istituzione statuale, «esigenza quest’ultima che sarà, invece, posta alla base dalla sintesi neoclassica e giustificata dalla preoccupazione di vedere il sociale frantumato dalla competizione degli egoismi personali» (Mazzotta 2013, 23).
2. Il ruolo «sociale» dello stato e la prima crisi sistemica: la Grande depressione
Verso la metà dell’Ottocento, in piena tradizione hegeliana, Lorenz von Stein teorizza una prospettiva tesa alla risoluzione della distinzione tra stato (Staat) e società (bürgerliche Gesellschaft), presupposto necessario per riconoscere allo stato l’onere di assicurare il libero sviluppo della personalità degli individui e alla società quello di strutturare le sue relazioni, incluse quelle fondate sulla proprietà. «Diverse sono le logiche che governano i due ambiti: al principio di libertà formale incarnato dal diritto e dallo Stato sono costitutivamente opposte (in termini sia storici sia ontologici) le logiche di dipendenza e di esclusione determinate, in ambito sociale, dalla divisione del lavoro e dalla diseguale distribuzione della proprietà» (Chignola 2000, 821).
Secondo questa linea di pensiero, il ruolo sociale dello stato si traduce nella capacità di governare la diversificazione e la dipendenza materiale tra gli individui, evitando la trasformazione del dominio sulle cose in quella sulle persone (Preite 2018, 117). In tale prospettiva lo stato contemporaneo assume due caratteristiche fondamentali coincidenti con le definizioni di Stato di diritto e di Stato sociale. Questo nuovo assetto si basa, da un lato, sul riconoscimento della centralità del diritto nel regolare tutta l’attività dello stato e i rapporti tra lo stato-apparato e cittadini; dall’altro lato, sulla necessità di creare condizioni oggettive e materiali per garantire a tutti i cittadini l’effettivo esercizio dei diritti civili e politici, cioè l’uguaglianza sostanziale (Caferra 1987). Stein, tuttavia, nonostante sia considerato il precursore dello stato sociale e nonostante sia fortemente critico verso il liberalismo classico, non eccede mai i limiti di quella tradizione, ma propone una soluzione politica che prevede l’accesso al ceto medio del proletariato «in forza dell’acquisizione di una proprietà, che sola garantisce un profilo di cittadinanza piena» (Chignola 2000, 822).
Tuttavia, nel passaggio tra Otto e Novecento, la teorizzazione della distinzione tra stato, società ed economia, che aveva fino ad allora rappresentato un postulato fondamentale della pratica politica, comincia a modificarsi, delineando uno stato interventista che assume la responsabilità nel finanziamento e nell’amministrazione di programmi di assicurazione sociale e un ruolo diretto nell’economia (Galli 2001, 476-477).
L’Inghilterra di fine Ottocento, vede gli economisti neoclassici offrire una visione del mondo capitalistico molto più ottimistica di quella dei loro predecessori classici e molto meno conflittuale di quella di Marx. Essi osservano un’economia orientata alla ricchezza delle classi agiate, ma anche all’aumento dei salari, senza che questi ultimi siano rapidamente riassorbiti per effetto dell’aumento della popolazione (De Boni 2007, 165).
L’accantonamento del motivo della crisi, ipotizzato dai classici, non impedisce agli economisti neoclassici di continuare ad analizzare il verificarsi di fluttuazioni fra momenti di espansione e momenti di arresto e quindi di nuova crisi che richiedono particolare attenzione sul fronte delle politiche sociali.
Alfred Marshall ipotizza la necessità di una politica economica pubblica sotto forma di controllo del credito da parte delle autorità monetarie e, con l’elaborazione della Teoria degli equilibri parziali, offre alla tradizione economica continentale e al paradigma neoclassico una prospettiva di indagine economica alternativa, rivolta alla valenza esplicativa della teoria più che alla coerenza logica dell’analisi economica (Marshall 1972). Egli respinge la tesi, sostenuta dagli economisti assertori del libero mercato, secondo cui l’unico modo per migliorare le condizioni delle categorie dei meno abbienti è quello di favorire e incrementare gli interessi dei capitalisti e dei facoltosi (Preite 2018, 119). Marshall è in definitiva l’iniziatore (all’interno del filone neoclassico) di quella tendenza che mitiga l’estremo laissez-faire con una politica di riforme frutto di un intreccio inestricabile tra la dimensione economica e quella socio-culturale. Si tratta di «una connessione forte tra i fatti della sfera materiale e quelli della sfera morale, che comporta conseguenze di rilievo sul modo di concepire […] gli interventi in economia da parte dello stato» (Cozzi, Zamagni 1992, 57).
Le premesse teoriche e metodologiche di Marshall contribuiscono all’arricchimento di un processo che vede lo stato sociale come progetto politico per la costruzione di una forma qualitativamente superiore di democrazia, in grado di superare i limiti formalistici del sistema e di realizzare ideali di equità e di giustizia sociale, garantendo al tempo stesso stabilità e crescita economica.
Una stagione importante del Novecento per l’evoluzione dello stato sociale è rappresentata dal periodo bellico 1915-1918 e trova il suo epicentro in Inghilterra, che per prima adotta politiche e provvedimenti a carattere sociale per controbilanciare la mobilitazione di una parte consistente della popolazione nel conflitto, con la promessa di assicurarne il benessere (De Boni 2009).
Alla fine della guerra, in tutta Europa si diffondono politiche sociali incentrate sul principio della “protezione minima verso i bisogni”, quale risultato di una serie di fattori, tra cui l’inserimento del popolo all’interno delle istituzioni dello stato, avvenuto principalmente a seguito dell’ampliamento del diritto di voto e reso possibile dalle correnti socialdemocratiche e in particolare dalla posizione del movimento operaio e sindacale (Preite 2018, 122). Tali correnti, abbandonate le posizioni critiche del passato, operano attivamente all’interno delle istituzioni per introdurre, all’interno del sistema sociale, il seme di quelle riforme orientate a mitigare e successivamente modificare anche la struttura del sistema economico di matrice capitalistica.
In buona parte dei paesi europei, nel periodo tra il 1918 e il 1929, vengono adottati criteri d’intervento in continuità con numerosi provvedimenti varati prima del conflitto, ma in un contesto caratterizzato dall’affermazione delle società di massa. L’accordo e l’inedita unione tra i partiti socialisti moderati e i governi borghesi segnano la fine della conflittualità operaia durante la guerra, ma in cambio i vari governi nazionali sono chiamati ad adottare misure atte a risolvere i problemi delle classi subalterne: in primo luogo il potenziamento e la modernizzazione delle legislazioni sociali. Tuttavia, al moltiplicarsi delle tipologie di intervento pubblico di matrice assistenziale si affianca il problema della crescita incontrollata dei soggetti che ne beneficiano e, sul finire degli anni Venti, la copertura finanziaria delle politiche sociali raggiunge elevati livelli di complessità dimostrandosi sempre più difficile da praticare.
Nell’ottobre del 1929, con il crollo della borsa newyorkese di Wall Street e con le conseguenti ripercussioni finanziarie ed economiche in Europa, l’economia mondiale è colpita da una crisi che per le inconsuete caratteristiche di ampiezza, intensità e durata, diviene nota col nome di Grande Depressione. Questo fenomeno si origina negli Stati Uniti, ma assume rapidamente proporzioni enormi in tutto il mondo. Crolla il mito del mercato che si autoregola nel distribuire le risorse nel modo più vantaggioso per l’intera società e crolla di conseguenza la copertura ideologica del laissez-faire, portando gli attori sociali alla consapevolezza del fatto che l’anarchia del mercato costituisce una minaccia seria alla sopravvivenza stessa del sistema capitalistico.
Da questo momento, si affermano in Inghilterra le tesi economiche di Keynes. Egli sostiene che: non è deducibile dai principi di economia che l’interesse egoistico, per quanto illuminato, operi sempre nell’interesse pubblico; non è deducibile dall’esperienza che gli individui che agiscono in comunità sociale siano sempre di vista meno acuta di quando agiscono separatamente (La Malfa 2015). Sia per Keynes, sia per Marx, il capitalismo è finalizzato al profitto di pochi e non al benessere di tutti. Si vive solo in apparenza in un’economia di scambio, mentre nella realtà si opera in un’economia monetaria.
La teoria generale dell’occupazione di matrice keynesiana costituisce la base di una nuova rivoluzione teorico-concettuale, che postula l’intervento dello Stato allo scopo di stimolare l’incremento dei consumi.
All’inizio degli anni Cinquanta, pur con evidenti differenze tra paesi, in tutta l’Europa occidentale maturano le condizioni per l’avvio del periodo aureo dell’economia di mercato. Questa fase di crescita, destinata a protrarsi per oltre un ventennio, coincide con il progressivo sviluppo dello stato sociale in termini di “welfare”. Tale processo comporta conseguentemente un maggiore impegno organizzativo e soprattutto un progressivo aumento dei costi destinati a sostenere il sistema. La spesa per le politiche sociali cresce inequivocabilmente e costantemente in tutti i principali paesi incidendo con percentuali importanti sul prodotto interno lordo, sebbene anch’esso registri una crescita sostenuta (Conti, Silei 2005, 121).
3. L’ondata neoliberista fino alla crisi economico-finanziaria (2008-2018)
Fino alla fine del degli anni Settanta del secolo scorso, il modello keynesiano ha rappresentato il quadro analitico di riferimento per l’elaborazione di strumenti di politica economica finalizzati ad introdurre interventi dello stato nel mercato, in contrapposizione alla prospettiva del liberismo neoclassico e alla difesa della libera iniziativa dei privati a garanzia dei processi di riequilibrio del mercato.
Tuttavia, a partire da questo periodo anche le soluzioni keynesiane hanno iniziato a manifestare i propri limiti evidenziando che, pur a fronte di un sostegno della domanda aggregata (attraverso politiche pubbliche), l’effetto moltiplicativo atteso sugli investimenti e quindi sull’occupazione veniva contraddetto da fenomeni di coesistenza tra elevati livelli di inflazione, ristagno produttivo e crescita della disoccupazione. Le premesse, dunque, sono mature per lo sviluppo di un pensiero d’impostazione neoliberista che sostiene gravi responsabilità derivanti dalla burocratizzazione dell’economia a danno dell’iniziativa privata. In contrapposizione al mainstream dominante fino agli anni Settanta, si diffondono idee radicali come quelle di Friedrich von Hayek e capaci di offrire l’interpretazione di implicazioni metodologiche tese a svelare gli errori dello statalismo invasivo, soprattutto quello attuato attraverso manovre correttive del mercato in nome di una politica di giustizia e uguaglianza sociale che interviene sulla posizione economico-sociale dei singoli (Preite 2011, 112).
Dalla fine de secolo scorso fino ai primi anni del nuovo millennio, il contesto entro cui opera il modello sociale di welfare, risulta fortemente mutato a causa di fattori strutturali che vanno dalla concorrenza crescente dei paesi emergenti alla riorganizzazione dei processi produttivi su base globale, dalla rapidità dell’innovazione alla crescente frammentarietà dei percorsi lavorativi, dalla flessione prospettica delle forze di lavoro all’invecchiamento della popolazione (Draghi 2012). Ne consegue che anche la configurazione dei rischi appare profondamente modificata rispetto all’epoca di Keynes, nella direzione della “globalità”, cioè di una interdipendenza funzionale tra attori sociali, eventi economici e politici che non ha precedenti nella storia (Zolo 2004, 4; Mazzotta 2013, 40).
La modernità contemporanea, dunque, evidenzia la natura non neutrale della globalizzazione, nel senso che la sua fenomenologia positiva o negativa dipende dai metodi con cui la globalizzazione viene gestita, dalla volontà di attuare un riformismo globale che si traduca nella trasparenza decisionale delle istituzioni economiche internazionali e che, liberate dai vari condizionamenti che ne determinano il controllo, ritornino alla loro missione originaria (Stiglitz 2002).
La crisi sistemica internazionale del 2008 con la sua matrice finanziaria statunitense (crisi dei subprime) originatasi nella seconda metà del 2006, ha svelato serie debolezze negli assetti economici ed istituzionali di tutti i paesi coinvolti stimolando un intenso dibattito sulla necessità di ricercare nuovi standard di sostenibilità economica, ambientale e sociale basati sulla riqualificazione del capitale umano e ambientale di fronte alla natura straordinaria e di breve periodo che ha caratterizzato tutte le forme di correttivi introdotti per arginare la crisi. In questa direzione si colloca il pensiero di Stiglitz, in particolare sul pesante fallimento sociale ed economico e dai suoi movimenti asimmetrici (Stiglitz 2011); analogamente Krugman parla di danno colossale sul piano umano che si sarebbe potuto evitare se al posto di comodi pregiudizi ideologici e politici si fossero tenute presenti le lezioni della storia e le conclusioni dell’analisi economica (Krugman 2012).
Lo scenario economico, politico e sociale della modernità contemporanea descrive questa traiettoria di contrapposizioni. Si assiste alla riproposizione dell’idea di trade off tra efficienza ed equità, tra competitività e diritti, tra produttività e giustizia, orientando la decisione politica in direzione di quel retrenchement del welfare state che non era stato possibile attuare nel ventennio precedente (Pennacchi 2011, 14), ma si apre anche una prospettiva alternativa che consente di pensare al settore pubblico e a quello privato in termini di complementarietà e di partnership (Stiglitz 2011, 53), contemperando un impegno per la giustizia sociale e per un profondo ripensamento dei processi democratici che non possono prescindere da istituzioni adeguate a gestire i complessi processi di governence (scelte di governo) e government (governo delle scelte) a livello globale.
In tal senso ripensare il rapporto stato/mercato, alla luce della crisi in atto, significa porsi domande che sembravano superate o marginalizzate dai paradigmi consolidati, significa guardare a nuovi modelli di sviluppo capaci di intervenire sugli squilibri territoriali, sul depauperamento del capitale sociale e dei patrimoni infrastrutturali, sulla dequalificazione dei sistemi educativi e delle strutture di welfare, sui problemi ambientali o più in generale quelli che coinvolgono i beni comuni.
4. Le conseguenze della crisi: il deficit democratico tra politica ed economia
L’ultimo decennio di crisi economico-finanziaria rende tuttavia manifesti ulteriori aspetti. La trasformazione dello stato sociale in sistema di welfare e la sua successiva crisi, il violento processo di relativizzazione e quindi contrazione dei diritti sociali, la diffusione generalizzata di pratiche di governo di matrice neoliberista descrivono l’esito di una sovrapposizione tra sistemi sociali (in primis: economia e politica) che si traducono in una forma di “intrasparenza funzionale” generatrice di nuovi paradossi.
A livello internazionale, il tasso di credibilità nelle istituzioni tradizionali della democrazia, ovvero il livello di fiducia nutrito dai cittadini, ha subito un declino progressivo fino a raggiungere livelli drammatici (Norris 1999; Pharr, Putnam 2000; Rosanvallon 2009; Galli 2011; Petrucciani 2014). In altri termini, si è giunti al punto d’approdo di un lungo processo di riduzione della rappresentatività democratica, il cui inizio si può far risalire alla metà degli anni Settanta del secolo scorso, con il Rapporto sulla Crisi della democrazia curato da Crozier, Huntington e Watanuki per la Trilateral Commission. Al sovraccarico di domanda che, secondo questi autori, ha appesantito la vita delle democrazie si è risposto attraverso un processo di verticalizzazione delle decisioni, di rafforzamento degli esecutivi, di instaurazione di un più equo rapporto tra autorità statale e controllo popolare, concentrazione dei poteri decisionali nelle mani di più ristrette élites (Crozier, Huntington, Watanuki 1977).
Tuttavia, questo processo, seppur auspicato interagendo con la globalizzazione, ha contribuito a produrre un nuovo paradosso, ovvero il ricorso persistente alla prassi tecnocratica per risolvere questioni di natura socio-economica, il ché ha determinato un rafforzamento del potere burocratico orientato allo sviluppo in termini tecnici della società. Il paradosso, dunque, è espresso proprio da questo esito, cioè dalla deriva tecnocratica in cui le grandi decisioni di uno stato, o di più stati, sono di natura tecnica e non politica (Longo, Magnolo 2007).
Il livello delle contraddizioni osservabili non si ferma qui perché anche la massificazione intesa come spersonalizzazione dell’individuo e tendenza della società neoliberalista a garantire valori uniformi e quindi standardizzati, produce i suoi effetti di contrasto con il processo di democratizzazione. Infatti, la massificazione che scaturisce dall’allargamento reale delle basi di potere e che produce depoliticizzazione per effetto dell’allontanamento dalle masse (periferia) dal sistema della politica (centro) evidenzia un disincanto democratico dove i cittadini votano meno che in passato e soprattutto votano in modo diverso (Rosanvallon 2008). Disincanto democratico non significa disinteresse per la cosa pubblica, ma piuttosto un diverso modo con il quale i cittadini partecipano alla vita collettiva.
La vitalità democratica trova manifestazione non già nell’associazione del cittadino all’esercizio del potere, ma nell’organizzazione del controllo su chi governa (Ivi, 123), descrivendo un costante bilanciamento tra facoltà d’impedire e facoltà d’agire perché accanto al consenso svolge un ruolo essenziale il dissenso, come già teorizzato da Montesquieu. In queste attività c’è sempre un carattere ambiguo; infatti, se da un lato agiscono come momenti di stimolo e rafforzamento della democrazia, dall’altro lato possono indebolirla con forme distopiche di comunicazione e di partecipazione alla vita pubblica (come nel caso dei populismi) che mettono alla prova le istituzioni ed espongono il potere a prove di buon governo per il welfare collettivo (Preite 2017, 880).
In effetti, il rancore cui ogni forma di populismo dà voce non è altro che il prodotto di una incapacità di rappresentare e di dare risposte al disagio sociale che, lasciato a se stesso dalle forze politiche “razionali”, trova ascolto soltanto nei profeti del risentimento (Petrucciani 2014). Un fenomeno che alimenta la distanza tra potere e società, genera esclusione e produce, dunque, “periferie” sociali che si allontanano progressivamente dal centro del potere e degli interessi.
Tocqueville pensava che la democrazia potesse semplificare sempre di più la vita politica, in realtà oggi avviene il contrario. Lo sviluppo della democrazia rende la vita politica sempre più complessa. La politica, attraverso le sue ordinarie operazioni formalmente orientate verso l’inclusione democratica, democraticamente esclude chi è “diverso”, mantenendo la propria conservazione includendo chi è “uguale” (Preite 2017, 881).
Osservare e descrivere i meccanismi, i dispositivi governamentali e le strutture dell’inclusione e dell’esclusione sociale, significa svelare le possibilità di demistificare le demagogie egualitariste e orientare le aspettative stesse di inclusione. Attraverso questi dispositivi la società controlla la natura delle operazioni della sua struttura, ma controlla anche le improbabilità evolutive alle quali si espone e si assicura stabilità (Ibidem).
La conseguenza della stabilizzazione di questo processo di differenziazione non consente più che l’inclusione in un sistema sociale implichi automaticamente anche l’inclusione in altri; questo fatto crea problemi in quanto produce una differenziazione tra inclusione ed esclusione che aumenta il rischio e diminuisce l’interdipendenza (De Giorgi, Magnolo 2005, 17). Questo è il motivo principale per cui si genera un paradosso.
Se si assume questa prospettiva si può vedere come nella modernità contemporanea si produce, allo stesso tempo maggiore eguaglianza e maggiore disuguaglianza; più legalità e più illegalità; più ricchezza e più povertà; più conoscenza e più ignoranza; più democrazia e meno partecipazione; più sicurezza e più rischi (Castañeda Sabido, Cuéllar Vàsquez 1998) e se la politica, di fronte a questo, non fornisce stabilità delle aspettative – principalmente nei delicati momenti di crisi sistemica come quella attuale – ma piuttosto contribuisce a sviarle in altre direzioni, c’è il problema concreto di come possa essere assorbita l’incertezza che ne deriva.
Si continua ad immaginare la democrazia come forma di governo che realizza la rappresentazione degli interessi di tutti, per questo si continua a sperare in più democrazia, si chiede più democrazia (De Giorgi 2006, 133-135). Parallelamente, si afferma un’idea globalizzante secondo la quale il nuovo ordine sociale è affidato al mercato (capitalismo finanziario). L’assunto è: se non funziona la selezione delle decisioni pubbliche, funzionerà senza dubbio la selezione naturale del denaro e delle finanze.
Gli esiti di questa premessa si traducono in una crisi che, attualmente, investe gran parte produce effetti distorti sui sistemi sociali e agevola forme di dipendenza indifferenziata tra economia e politica. Mentre l’economia evidenzia maggiore capacità di assorbimento delle dinamiche globali sulla base del codice inclusione/esclusione, la politica manifesta una certa resistenza principalmente legata alla impermeabilità che deriva dall’intenso processo di istituzionalizzazione e che, nel tempo, ne ha definito le prerogative funzionali. Una dimensione in cui le scelte politiche, condizionate dal mercato, acquisiscono il carattere di necessità e inevitabilità (Preite 2017, 885). Questo fatto genera inevitabilmente tra i sistemi una sorta di intrasparenza funzionale che sempre più spesso rappresenta la causa principale dei recenti fenomeni di depoliticizzazione.
Ripensare il rapporto stato/mercato, tra politica
ed economia, alla luce dei fenomeni di depoliticizzazione in atto, significa
porsi nuove domande (teorizzazioni) che superano i vecchi paradigmi, ma
significa anche guardare a nuovi modelli di sviluppo e di organizzazione
sociale. Teorie e modelli in grado di agire sul governo dei flussi finanziari, sugli
squilibri territoriali, sul depauperamento del capitale sociale e dei patrimoni
infrastrutturali, sulla dequalificazione dei sistemi e delle strutture di welfare, oltre che, sui problemi
ambientali o più in generale quelli che coinvolgono i beni comuni.
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