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n. 1 / 1 luglio 2012

Cuba, tra post-colonialismo e post-rivoluzione

Adelaide D'auria
Scuola di dottorato in scienze umane
Università degli Studi di Bari Aldo Moro

 

«[...] Quando gli occidentali guardano il mondo non occidentale, ciò che vedono molto spesso è un mero rispecchiamento di loro stessi o di loro assunti o concezioni, anziché ciò che lì (nelle ex colonie) veramente accade oppure i modi in cui i soggetti non occidentali sentono o percepiscono loro stessi [...]» (1).
Questa definizione di postcolonialismo (Young, 2005) è sembrata la più semplice ma al contempo la più completa ed efficace, per la chiarezza dei suoi assunti. Compito non facile, quello della chiarezza ed efficacia, dal momento che quella del postcolonialismo è una corrente di studi molto vasta, trasversale rispetto alle discipline, che investe la letteratura, la filosofia, la storia e le scienze sociali nel loro complesso, e che ha portato alla complessificazione del significato di termini quali razza, etnia, identità, ibridismo, autodeterminazione etc...

Col tempo il termine è diventato inoltre associabile a movimenti politici, perlopiù non riconosciuti dai governi insediati al potere, la cui azione è stata ed è soprattutto orientata alla rivendicazione dei diritti fondamentali delle parti più deboli della popolazione (livelli salariali dignitosi, diritto alla terra, indipendenza di parti del territorio. A titolo di esempio si pensi al subcomandante Marcos in Messico e alla sua azione in favore dei contadini indigeni del sud del paese). L'associazione con il postcolonialismo sussiste nella misura in cui i suddetti movimenti denunciano non solo gli effetti catastrofici di lungo periodo del passato dominio coloniale, responsabile di profonde fratture economiche e sociali, ma anche quelli determinati da un'altra, più recente e più subdola forma di dominazione, operata dal capitalismo internazionale (2).

Parlare di postcolonialismo oggi inoltre appare ancora più difficile: i conflitti tra civiltà, la dominazione sull'altro in molteplici forme, dirette o indirette ma non, queste ultime, meno insidiose, lungi dal poter essere considerati fenomeni del passato, ricorrono invece forse con ancora maggiore veemenza in più angoli del globo, non solo extraeuropei ma anche nel vecchio continente (si pensi, ad esempio, alle rivolte nelle banlieues francesi del 2005, quale conseguenza tangibile delle politiche governative in materia di immigrazione e cittadinanza, in questo caso dalle ex colonie). Il colonialismo europeo ha tracciato un solco profondo nei territori e nelle anime di coloro che ha dominato con la forza: l'indipendenza, laddove ottenuta a costo di conflitti spesso lunghi decenni, è stato solo l'inizio di un lungo e complesso processo di riappropriazione e ricostruzione delle identità originarie, in alcuni casi forse irrimediabilmente compromesse dalla dominazione, non solo fisica, ma anche e soprattutto culturale. Gli studi post coloniali sono riusciti negli ultimi quarant'anni (3) a dare voce a questi processi e ad alimentare il dibattito intorno a tali argomenti. Resta ancora apertissima la questione dell'effettiva riuscita di questo processo di riappropriazione, e in altri luoghi il tema è stato opportunamente approfondito (4).

Il perché della scelta di Cuba in un discorso sul postcolonialismo attiene a due ordini di ragioni, uno oggettivo, l'altro personale, avendo avuto modo di vedere personalmente la capitale cubana alcuni anni fa.
La particolarità di Cuba, e per certi versi la ragione che rende l'isola caraibica più interessante ai nostri fini, risiede nella sua particolare storia: al noto passato coloniale con la dominazione spagnola durata fino alla fine del XIX secolo, va ad aggiungersi l'occupazione da parte degli Stati Uniti, seppure non formale ma de facto, terminata poi con la rivoluzione del 1959, che portò alla nascita di una Cuba per la prima volta veramente indipendente, con l'instaurazione del governo rivoluzionario presieduto dal leader maximo Fidel Castro, tutt'ora in carica. Da molti l'isola caraibica è considerato un esempio di resistenza al dominio territoriale, economico e culturale delle potenze straniere, tanto da assumere tratti mitici, una sorta di lotta tra il Golia statunitense e il Davide cubano. 

Cuba è uno dei pochi posti al mondo in cui le tracce di esperienze del passato così diverse tra loro, faticano a essere sepolte sotto gli accumuli degli eventi e dal tempo, coesistendo e spesso interagendo in modi inaspettati. Il passato coloniale spagnolo, la dominazione americana e la rivoluzione, ricorrono continuamente in tutti i luoghi e sono fortemente presenti nelle vite dei suoi abitanti. Il passato coloniale ha lasciato le vestigia architettoniche dello stile spagnolo (fig.1), la lingua, la pelle chiara dei discendenti, i creoli, insolita per un paese caraibico; gli americani hanno lasciato in eredità le automobili degli anni Cinquanta, le sale da ballo e gli alberghi di lusso, tutte cose che sembrano rimaste sospese nel tempo, quasi lasciate a causa di una fuga improvvisa; la rivoluzione ha lasciato, e mantiene, a rinnovare continuamente il ricordo delle sue tappe fondamentali e più epiche, la grandiosità delle costruzioni, l'austerità degli edifici statali e le immagini onnipresenti dei miti che ha prodotto (fig.2).

Fig. 1. Castillo de Los Tres Reyes del Morro, detto “El Morro”, costruita dagli spagnoli alla fine del XVI secolo, situata sul lato orientale della baia de l'Avana

Seppure a fatica, l'isola è riuscita a ricostruire un'identità forte, identità scritta anche nel nome della sua capitale (l'Avana infatti deriva da Haban, nome del sovrano indigeno precolombiano dell'isola) e l'evento che certamente ha più di ogni altro contribuito a rafforzarla è stata la rivoluzione. Quell'evento è continuamente rinnovato nella memoria dei cubani ed è raccontato come il momento del riscatto, della legittima riappropriazione dei propri destini. Come continuo memento di quei giorni, che hanno segnato la storia dell'isola dell'ultimo mezzo secolo, esiste un Museo della Rivoluzione (figg. 3 e 4), che mostra e custodisce i suoi simboli. Tutta un'altra questione è quella relativa al vero significato di questi luoghi, sia per i locali che per i turisti, che continuamente, come per qualsiasi altra attrazione della città, ne prendono visione a proprio uso e consumo, attirati da quella familiarità percepita nei ritratti di Fidel o ancora di più, di Ernesto Guevara, vista innumerevoli volte su poster, cartoline o T-shirts, come succede per le pop-star..


Fig. 2 Ritratto di Che Guevara in un interno

È esattamente il sentimento di estrema familiarità che si prova visitando la celebre Piazza della Rivoluzione, un luogo dalle dimensioni enormi, uno di quei luoghi destinati a quelle che Elias Canetti avrebbe definito “masse chiuse” (5), perché «[...] la massa chiusa rinuncia alla propria crescita e si preoccupa soprattutto della durata. Di essa spicca innanzi tutto il confine. La massa chiusa si insedia. Nell'atto in cui si confina trova la propria sede; lo spazio che riempirà le è stato assegnato, e può paragonarsi a un vaso in cui si versa del liquido e di cui si conosce la capienza [...]» (6). Così la piazza è il luogo del ricordo, dell'acclamazione, della ripetizione dell'evento  rivoluzionario, della celebrazione dei suoi capi in occasione delle loro “epifanie”, e dei suoi miti. Tutto vi è concentrato: l'enorme facciata del Ministero dell'Interno, con il volto metallico del Che che guarda all'orizzonte, al futuro, con l'espressione di chi sa di aver ottemperato al suo compito salvifico (fig. 5), e la statua di Josè Martì (1853-1895), “protomartire” della patria cubana, che cento anni prima aveva combattuto contro due nemici per l'indipendenza del suo Paese, la Spagna dominatrice prima (nonostante Martì avesse genitori spagnoli) e gli Stati Uniti, con il loro imperialismo sotto mentite spoglie, dopo.


Fig. 3 Opera esposta al Museo della Rivoluzione, l'Avana, Cuba in cui si distingue chiaramente la figura di Fidel Castro.


Fig. 4 Armi usate per l'ingresso a l'Avana, tra cui il fucile e il copricapo di Che Guevara


Fig. 5 Facciata del Ministero dell'Interno in Piazza della Rivoluzione a l'Avana


Fig. 6 Particolare di Piazza della Rivoluzione, con l'edificio a forma di stella a cinque punti e la statua di Josè Martì posta dinnanzi ad essa

Proprio gli Stati Uniti, sono diventati il principale oggetto della propaganda statale, in quanto considerati colpevoli, a causa della politica dell'embargo totale iniziato più di cinquant'anni fa, il bloqueo, della condizione economica precaria del Paese. La retorica del bloqueo è presente ovunque, sui cartelloni stradali, nelle aule universitarie, a rappresentare il continuo atto d'accusa rivolto al gigante vicino, di perpetrazione di un danno ingiusto, nei confronti di un paese la cui unica colpa è stata quella di rivendicare la propria autonomia e la propria autodeterminazione (fig.7).


Fig. 7 Cartellone stradale, “La libertà non si può fermare”

Quanto il popolo cubano si senta sinceramente partecipe di tale sentimento, e quanto invece sia frutto di imposizione, è difficile dirlo, e laddove si possa o si voglia farlo, si entrerebbe nell'ambito delle opinioni.

Note

1 Robert J. Young, Introduzione al postcolonialismo, Meltemi, Roma, 2005.

2 Non è questo il luogo per discutere circa l'effettivo inizio del dominio del capitalismo internazionale presso le colonie. Secondo alcuni autori, tra cui Young, o.u.c., il capitalismo internazionale è stata la vera anima dell'ideologia colonialista. Lo testimonierebbe l'uso degli schiavi come merce nelle colonie oltreoceano.

3 Come noto, i primi studi post coloniali più compiuti, che hanno iniziato a configurare quella del postcolonialismo come una vera e propria corrente critica risalgono alla fine degli anni Sessanta, inizio anni Settanta, con gli scritti di autori come Fanon , Said e più recentemente Spivak, per citare solo i più noti.

4 Oltre al testo di Young, che tenta di esemplificare attraverso esempi concreti la condizione di alcune realtà postcoloniali, si segnala anche il testo di Ania Loomba, Colonialismo/postcolonialismo, Meltemi, Roma, 2002, oltre a G. Ranajit, G.C. Spivak, Subaltern Studies. Modernità e (post-colonialismo), Ombre Corte, 2002.

5 Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi, Milano, 2010.

6 Elias Canetti, op. cit., pag. 20

 

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