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n. 1 / 1 luglio 2012

Nulla permane, tranne me. Appunti sulla crisi della monumentalità

di Sabino Di Chio
Assegnista di ricerca Dipartimento di Scienze Politiche
Università degli Studi di Bari Aldo Moro

 

 

1. Giugno 2011, per festeggiare lo scudetto alcuni tifosi del Milan “scalano” la Montagna di Sale, installazione di Mimmo Paladino in Piazzetta Reale a Milano (tratta da http://www.artribune.com/2011/05/questioni-%E2%80%9Cmarginali%E2%80%9D-paladino-la-montagna-e-la-transenna/)

Testimoni muti

Negli ultimi mesi la cronaca aggiorna con regolarità l’elenco delle vittime di un conflitto silenzioso tra società italiana e l’imponente patrimonio monumentale che costella il suo spazio pubblico. Da un lato, opera l’inerzia del tempo lasciata senza contrasto: crollano i muri di Pompei (1), si sfarina il cornicione di Fontana di Trevi (2), Villa Adriana a Tivoli ha convissuto con la minaccia dell’apertura di una discarica a 700 metri di distanza (3) mentre i Fori Imperiali a Roma sono periodicamente invasi dai liquami (4). I campanili emiliani spezzati dal terremoto vengono lasciati cadere senza che nessuno ipotizzi come in passato un piano di restauro, quasi a voler approfittare della calamità per un’affrettata sepoltura.
All’incuria si affiancano le mani di un vandalismo distratto: i leoni di pietra che fanno guardia alla Cattedrale di Trani decapitati dall’uso della scalinata per una gara di motocross (5), il portale del Maschio Angioino a Napoli usato come bacheca per messaggi d’amore (6), le statue della Loggia dei Lanzi in Piazza della Signoria a Firenze mutilate delle dita dopo un non convenzionale free climbing (7). E il contemporaneo non incute maggior timore reverenziale: in occasione della vittoria dello scudetto 2011 decine di tifosi milanisti in preda all’euforia scalarono in piazza Duomo la Montagna di Sale, installazione di Mimmo Paladino.
Pochi esempi, tratti da decine di trafiletti simili, accomunati dall’evidenziare il lento affievolirsi del patrimonio monumentale nel suo ruolo di medium detentore di capitale simbolico e irradiatore di significati collettivamente rilevanti. Le testimonianze ammutoliscono. Spogliate del potenziale evocativo, diventano oggetti neutri, passibili di due destini: l’oblio in attesa della consunzione o la riscrittura in base all’esigenza contingente del fruitore.
Nel dibattito pubblico, la spiegazione alla trascuratezza italiana nei confronti del patrimonio poggia finora quasi esclusivamente su ragioni economiche. Un paese in difficoltà strutturali di bilancio si trova a dover assolvere al compito di tutelare con una coperta sempre più corta la più grande eredità culturale del pianeta. Il dato del decennale trend negativo dei trasferimenti statali al settore Beni Culturali fino all’attuale 0,11 % del Pil (8), però, da solo non chiarisce perché il patrimonio sia considerato idoneo più di altri ad assorbire le esigenze di risparmio. Le ragioni del puntuale posizionamento del settore in fondo alla lista delle priorità, accessorio e mai asset, spesa e mai volano, vanno cercate forse altrove, nello strisciante malessere che turba il rapporto tra società italiana e memoria storica collettiva.

Tabula rasa mercificata

Monumento, dal latino monere. Ogni monumento è un ricordo ma, per restare sul filo etimologico anche monito, ammonimento. Al di là dei singoli contenuti specifici, la relazione di un gruppo sociale con le opere meritevoli di conservazione dipende strettamente dalla capacità di ascoltare e dalla voglia di sopportare quei moniti. Cosa vuole ricordare l’Italia del 2012? Quali moniti sono meritevoli di osservanza e tutela al punto da essere tramandati?
La selezione dei contenuti e la manipolazione delle forme della memoria collettiva è campo di pratica del potere di ogni epoca (Halbwachs 1996). Custodia e trasmissione delle rappresentazioni del passato sono il risultato di una dialettica di continua reinterpretazione e revisione tra corpo sociale e struttura del comando, interessata a “dar forma alla memoria comune al servizio della costituzione di una cosiddetta “buona identità” (Jedlowski 2000, 143). Plasmato dal confronto con la declinazione locale del potere postdemocratico (Crouch 2003), il “buon italiano contemporaneo” assume le sembianze di cittadino-consumatore che ha imparato a porre il libero esaudimento della propria volontà come criterio orientativo della sua vita pubblica. Egli si è rispecchiato in un potere orientato alla customer satisfaction, particolarmente interessato alla riduzione dello spazio a tabula rasa in quanto direttamente coinvolto nella commercializzazione di significati nuovi, personalizzati e dematerializzati. Si è assistito, di conseguenza, all’ibridazione dei tempi del consumo nella temporalità istituzionale, alla progressiva infiltrazione, nell’esercizio della cittadinanza, del principio di massima accelerazione che presiede la rotazione e il ciclo di vita delle merci nelle economie post rivoluzione digitale.
Già in partenza, arte e storia invadono in Italia lo spazio pubblico al punto da produrne quasi una dequalificazione per saturazione. L’abbondanza di testimonianze riduce il valore marginale di ogni singolo elemento, favorendo nel corso del ‘900 la percezione del patrimonio come “vincolo” ad una compiuta modernizzazione. Nel passaggio alla tarda modernità informazionale e digitalizzata, il monumento da vincolo diventa anomalia, elemento disfunzionale, un filtro che intralcia la piena espressione dell’identità individuale. Il cittadino-cliente che, in quanto tale, “ha sempre ragione”, non riconosce autorevolezza in quanto non ammette possibili asimmetrie di conoscenza. Se la realizzazione del sé si compie nell’esercizio del consumo, non è ammessa comparazione con alcun sentimento collettivo che, per principio, voglia stilare classifiche di merito misurando la disponibilità del singolo alla continenza. Lo spazio pubblico si fa piattaforma dove riversare la dilagante espansione del flusso cangiante dei suoi desideri, e l’estensione dei margini di libertà è regolata da criteri strettamente finanziari.
Il monumento, invece, ha un valore “inestimabile”, è un pezzo di territorio sottratto alla generalizzazione della verità dei prezzi, un oggetto materiale e inerte da contemplare, meglio se lentamente. Diventa così un segnale di oppressione, perché a differenza del mercato (e dei poteri che da esso traggono legittimità) pretende di insegnare, sminuisce la centralità dell’individuo ricontestualizzandolo in una collettività che condivide un percorso più ampio che trascende l’interesse dei singoli.

Il patrimonio artistico-culturale suggerisce che il mondo non appartiene a chi lo abita. Trasforma uno spazio in luogo in quanto cristallizza in sé una raccolta di racconti tesi ad ampliare le pareti del presente. In sintesi, rende il passato tangibile, e di riflesso costringe ad interrogarsi sul futuro, su quali tracce dell’oggi resteranno. Questa “defeticizzazione dell’esistente” (Jedlowski 2000, 144) è destabilizzante non solo in Italia ma in tutto l’Occidente: nei monumenti è custodita l’ombra di un percorso. Insopportabile per società costrette a fare i conti con la loro immobilità.

Be iconic: la monumentalizzazione di sé

4. Kate Moss

“The artist is present” insegna Marina Abramovic. Il titolo della performance più nota dell’artista serba allude alla presenza fisica dell’artista che sostituisce l’opera nel contatto con il fruitore ma, involontariamente, esso getta un raggio di luce anche sull’attuale rapporto tra arte e tempo. L’artista è presente, non passato né futuro. A differenza dell’opera d’arte tradizionale, installazioni e  performance non sfidano la permanenza ma traggono il loro valore dallo spendersi in un solo irriproducibile istante. Schegge della “esuberanza dell'apparire che si esaurisce nello stesso atto” (Maffesoli 1983, 16) esprimono con efficacia il sentimento tragico dell'esistenza, la dissonanza incolmabile tra la cura per il momento vissuto e la sua effimera transitorietà.
Trasformare la biografia in un filare di attimi emozionanti è anche l’imperativo vitale dell’individuo tardo-moderno che fa i conti con una temporalità concepita come successione di singoli eventi, incessante produzione e consumo di istanti in grado di riprodurre al loro interno l’intensità del percorso storico e l’audacia della proiezione avveniristica. L’esperienza biografica si ricolloca sotto le vesti ossimoriche della “storia del presente”. L’evento, motore dell’economia digitale, dà vita ad un presente che “desidera guardarsi come già storico, come già passato”, come se volesse “farsi passato ancor prima di non essere pienamente accaduto come presente” (Hartog 1995, 1225). L’orizzonte temporale puntiforme ha bisogno della solennità di un passato sintetico per non soffocare nella contingenza, qualcosa di simile all’ “effetto antico” delle foto scattate con Instagram sugli smartphone. Il presente che si accolla su di sé i compiti di tutte le dimensioni, memoria, vissuto e progetto contemporaneamente, restringe sempre di più la quota di tempo per riflettere su ciò che è stato, selezionare cosa conservare, sceglierlo e usarlo per decidere l’azione. Tutto questo più volte, per più azioni, sempre più simultaneamente: gli ambiti di vita si accavallano e si moltiplicano, si despazializzano, si dematerializzano. Aumentano le decisioni da prendere, sempre più nodi rientrano nelle responsabilità del singolo.
Nell’esistenza priva di telos, l’individuo pressato si concentra in una scrupolosa opera di empowerment della propria figura fisica e psichica, una paziente levigazione degli attributi espressivi al fine di rendere l’immagine di sé radiante e significativa sul palcoscenico della vita quotidiana. La monumentalità trova così una nuova dimora immobile nella carne marmorea dell’atleta o in quella plastificata della pin-up, materiale onirico non più deteriorabile di un essere post-umano impegnato nella lotta contro scorrere del tempo e mai come oggi ad un passo dall’illusione di poterla vincere. La nuova monumentalità è forse nelle pose astute di Usain Bolt e Mario Balotelli, nuovi David viventi, ma già consapevoli di incorporare una dimensione storica nel presente. Oppure nel corpo scientificamente esanime di Kate Moss, testimonial non a caso di una campagna intitolata “Be iconic”. Sii icona, sii monumento dell’istante.

Il passo successivo alla vetrinizzazione di sé (Codeluppi 2007, 43), la sua ipostatizzazione, non può quindi forse rivelarsi la monumentalizzazione di sé? La fine delle trascendenze costringe l’individuo soggiogato ogni giorno al culto della performance a diventare, nell’incertezza, la sua stessa trascendenza (Ehrenberg 1991). Gli altri monumenti, quelli di pietra, si mettano pure al suo servizio.

6. Usain Bolt

7. Mario Balotelli

Note

1   http://napoli.repubblica.it/cronaca/2010/11/06/news/crolla-8812270/

2   http://roma.repubblica.it/cronaca/2012/06/10/news/fontana_di_trevi-36922413/

3   http://espresso.repubblica.it/dettaglio/villa-adriana-degrado-continuo/2186579/25

4   “Il crollo. Così va in rovina la nostra cultura”, Il Venerdì, n° 1269, 13 luglio 2012, p.111-113

5   http://www.repubblica.it/2006/07/sezioni/cronaca/vandali-trani/vandali-trani/vandali-trani.html

6   http://napoli.repubblica.it/multimedia/home/5619865/1/3

7   http://corrierefiorentino.corriere.it/firenze/notizie/arte_e_cultura/2009/9-marzo-2009/vandali-loggia-lanzi-danni-ratto-polissena-1501070763019.shtml

8   Rapporto annuale Federculture 2012 (http://www.federculture.it/)

 

Bibliografia


- Codeluppi V., La vetrinizzazione sociale, Bollati Boringhieri, Torino 2007
- Crouch C., Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003
- Ehrenberg A., Le culte de le performance, Calmann-Levy, Paris 1991
- Halbwachs M., La memoria collettiva, Unicopli, Milano 1996
- Hartog F., 'Temps et histoire. Comment écrire l'histoire de France?", Annales. Histoire, sciences sociales, n°4/1995, pp. 1219–36
- Jedlowski P., "Memoria" in Melucci A. (a cura di), Parole chiave. Per un nuovo lessico delle scienze sociali, Carocci, Roma 2000, pp. 139-147
- Maffesoli M., La conquista del presente, Inaua, Roma 1983

 

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