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n. 1 / 1 luglio 2012

Il Risorgimento come “rivoluzione passiva”, fra “scuola democratica” e biopolitica post-moderna. Note su Noi credevamo di Mario Martone

Salvatore Cingari
Professore di Storia delle Dottrine Politiche
Università per
stranieri di Perugia

 

Carlo Cattaneo, nel saggio sulla rivoluzione del ’48 a Milano, scritto pochi mesi dopo la sconfitta (1), delineò con forza una dinamica impressa in tutta la successiva storia d’Italia. Piemontesi e notabilato liberal-patriottico milanese preferirono evitare di alimentare la mobilitazione popolare e il volontariato, votandosi al fallimento per paura che la vittoria significasse la rivoluzione repubblicana. L’Unità fu realizzata quindi non con l’appoggio del corpo della nazione, ma con quello dell’Impero bonapartista, tanto che Cattaneo – avverso al cesari­smo militaristico - non volle sedere sul suo scranno parlamentare, rimanendosene in Svizzera; Mazzini morì clandestino in patria; e Garibaldi fu ferito moralmente e fisicamente, rivoluzionario tollerato e utilizzato se disciplinato (2), ma represso violentemente qualora avesse voluto realizzare le aspirazioni più profonde delle camicie rosse. Lo stato nacque in definitiva per mediare la modernizzazione politica con la conservazione delle gerarchie e i privilegi locali sedimentati in una storia secolare, minacciati dai processi rivoluzionari di tre quarti di secolo. Da allora moderati e democratici, nelle loro varie incarnazioni storiche, instaurarono un morboso rapporto di reciproca delegittimazione.

A differenza della fiction sulle Cinque giornate di Milano(3) - mandata in onda dalla RAI qualche anno fa e illuminata soltanto da qualche positiva interpretazione attoriale -, in cui il ’61 sembrava il trionfante coronamento del ’48, tutto questo dramma è invece alla base di Noi credevamo, il film che, come tutti ormai sanno, Mario Martone ha tratto dall’omonimo libro di Anna Banti. Esso descrive quella che Antonio Gramsci ha definito – riprendendo Vincenzo Cuoco – una “rivoluzione passiva”. I democratici come Mazzini e Pisacane non riescono a provocare che moti minoritari, incapaci di coinvolgere le masse contadine, facilmente repressi dai governi. Gradualmente le sorti del processo unitario passano saldamente in mano ai moderati monarchici. Tanti democratici, come, nel film, Antonio Gallenga, si “trasformano” e si fanno assorbire dai liberali, vedendo nei Savoia il varco verso la realtà. Persino Garibaldi, il Che Guevara del tem­po, l’eroe dei due mondi che entrerà col poncho al parlamento subalpino suscitando scandalo fra i benpensanti della destra storica, che diceva di distinguersi da Mazzini perché a differenza del genovese lui “era socialista”, sconsolato dal mancato radicamento dell’idea unitaria nelle campagne, accetta l’alleanza con Vittorio Emanuele II.
Il Risorgimento assume così sempre più le caratteristiche di un processo imposto dall’alto, sfociato non a caso nella repressione e nel latente rischio dell’autoritarismo. Su questo tema si sofferma la quarta parte del film L’alba della nazione, sullo scontro fra regolari e garibaldini sull’Aspromonte in cui viene passato per le armi il figlio di Salvatore, disertore dell’esercito italiano passato ai garibaldini, miracolosamente ritrovato da Domenico che, in modo toccante, ritrova insieme un figlio e un fratello, per vederselo poi subito uccidere dai militari italiani.
Questi tragici eventi furono resi possibili dall’esistenza di due separate nazioni: fin dal Rinascimento classi dirigenti e intellettuali, da un lato, e popolo, dall'altro, furono nel paese largamente divisi, replicando per certi versi la frattura fra “città” e “campagna”, in qualche modo geo-antropologicamente rideclinabile in quella fra “Nord” e “Sud”.
Nel film di Martone questa problematica è nodale: il trio dei protagonisti è non a caso composto da un contadino e da due fratelli dell’aristocrazia locale. E’ il padre del contadino a contrastare i disegni dei ragazzi, mentre la madre dei due nobili è di matrice massonico-carbonara. Il padre “trappetaro” (addetto all'oleificio) mostra al figlio come i padroni filo-giacobini da sempre rubino l’olio alla povera gente. Se già Cuoco aveva segnalato come il giacobinismo italiano avesse fallito per la sua lontananza dai linguaggi del popolo, la storiografia del secondo dopoguerra ha più analiticamente mostrato come la lotta anti-feudale e liberale dei giacobini italiani fosse spesso connessa a interessi proprietari e in conflitto con quelli dei contadini. Ecco che perciò Cristina di Belgioso – amica intima di Angelo e Domenico, i due fratelli protagonisti -  è presentata nel film più di una volta nel tentativo spasmodico di sensibilizzare l’intelighensia unitaria al problema sociale del lavoro rurale. Ecco che per tutta la plumbea seconda parte, ambientata in un carcere di massima sicurezza dopo il fallimento del ’48, è particolarmente riuscita la rappresentazione della secolare scissione fra i ceti: anche negli ambienti comunicanti dove i prigionieri politici erano ammassati, veniva stabilita una rigida separazione e gerarchizzazione degli spazi, identificata con un’esclusione anche politica, in cui i contadini antimonarchici non solo stavano a parte, ma non venivano chiamati a partecipare alle riunioni e alla discussione delle notizie che a fatica entravano fra le mura del carcere. Domenico dorme e vive soprattutto con loro, a testimonianza di una rara intransigenza e coerenza con i propri ideali democratici (in cui si possono riconoscere le punte più alte dell’anti-Italia perseguitata da Bava Beccaris, da Cadorna e da Mussolini e puntualmente delusa dagli esiti della rivolta, attonita dalla Restaurazione centrista, mobilitata dal terrorismo di stato e neo-fascista, progressivamente circondata dalla Video­cracy berlusconiana evocata dalle macerie di Tangentopoli). Tuttavia solo lui viene chiamato dai ricchi patrioti a condividere la “sfera pubblica” formatasi fra i prigionieri. Sollevando il problema del coinvolgimento dei contadini nella discussione, solo Carlo Poerio, monarchico illuminato e di grande spessore umano, dice che “si può fare”, ma, scoraggiato dalle proteste generali, aggiunge anche che “ci si può pensare in un altro momento”. L’apice tragico di questa tensione è ovviamente l’omicidio di Salvatore da parte di Angelo. Sospettato di essere una spia, accusato di aver abbandonato la lotta una volta diventato padre, viene ucciso da Angelo che cerca quasi di legittimare il suo accesso d’ira, di fronte allo sconcertato e sconvolto Domenico, con l’egida della “giustizia rivoluzionaria”, proprio il giorno della festa del battesimo del figlio di Salvatore, visto come ennesimo rito local-popolare a cui Angelo non riusciva più ad adattarsi. La terza parte sugli sviluppi della vita di quest'ultimo, gravata dal senso di colpa e dalla radicalizzazione dell’ideale rivoluzionario che, anziché nell’intransigenza antitrasformistica di Domenico, rimasta nel confine mazziniano-garibaldino, naufraga in una rivolta disperata  e moudit, priva di alcuna capacità di condivisione. L’esito è l’esercizio sterile di una violenza priva di tempesta del dubbio, in cui la vita umana anche innocente può essere sacrificata di fronte all’obiettivo della liberazione politica. Nel terzo episodio del film, incentrato sulla Londra in cui Mazzini da tempo tesseva un fitto dialogo con i più importanti esponenti della democrazia e del socialismo europei (4), Angelo è infatti tragicamente coinvolto nell’attentato a Napoleone di Felice Orsini, che poi scatenò e giustificò la stretta repressiva nel Secondo Impe­ro. L’ombra di Francesco Crispi agli angoli dei Boulevard, rimanda alla storia più recente del terrorismo italiano e all’utilizzo che di esso ne fece lo Stato più o meno deviato, secondo la dinamica dello “spettacolare integrato” descritto da Guy Debord, che non a caso rinnovava la pagina marxiana sull’estetizzazione della politica riferita proprio al maturo bonapartismo.
Un chiaro richiamo a come oggi il potere “concentrato”, esercitato dal monopolio statuale della violenza, si riproduca nella forma liquida e post-moderna (e post-democratica) della produzione economica della “soggettività” (ma non senza l’aiuto delle forme hard del potere stesso) è la scena in cui il capo delle guardie carcerarie cerca di terrorizzare i prigionieri, urlando fra le altre cose che lì non sarebbe stato possibile quasi leggere e scrivere: era stata del resto la cultura ad annebbiare loro le menti, a portarli alla delinquenza. E lui, in un misto d’italiano e dialetto, si vanta invece di essere alfabetizzato ma soltanto per redigere i verbali burocratici. Il pensiero va ovviamente all’attuale distruzione della scuola e dell’università, alla criminalizzazione di insegnanti e docenti, alla gassificazione degli ambienti in cui fiorisce la ricerca: istituti, biblioteche, archivi. Mentre dilaga nella mente dei ragazzi l’immaginario commerciale e i valori consumistici e insieme l'apparente compensazione (in realtà integrazione) regressiva del differenzialismo identitario. Ma la figura più spiazzante di tutto il film è a mio avviso l’ “uomo del cardellino”. Nella quarta parte, sulla carrozza in cui si ritrovano viaggiatori comuni e volontari accorrenti ad un nuovo richiamo di Garibaldi, come Do­menico e il figlio di Salvatore, si trova anche un uomo con una gabbia con un cardellino. Questi era stato sarto per le industrie di San Leucio, smantel­late a seguito delle politiche economiche liberistiche della Destra che favo­rirono la manifattura settentrionale. Inoltre aveva perso anche la moglie, da cui non aveva avuto figli – simbolo peraltro, questi, della riproduzione del sistema, della deiezione “pubblica” – ma aveva avuto una profonda felicità, nutrita anche di un rapporto con la natura ora assediata dal “rumore” con cui sembrano incedere i nuovi processi di modernizzazione. (5) Invano il figlio di Salvatore gli chiede fanciullescamente di unirsi alla lotta: la pace ch’egli trova nel ricordo del passato amore non ha nulla a che vedere con l’idea gnostica di una liberazione per via politica. La politica è, anzi, nella sua visione, uno degli effetti perversi della modernità che minaccia il rap­porto fra uomo e natura. Un po’ aporetica in effetti questa figura, in quanto da un lato essa mette in discussione il processo unitario dal punto di vista del mancato sviluppo dell’embrionale industria borbonica, ma poi dall’altro sembra considerare contrario alla misura umana tutto ciò che porta con sé il tempo nuovo. E’ in questa figura tuttavia che la storia del film trova il suo estremo – e forse anche per questo aporetico - approdo problematico. Sembra quasi che dopo averci per tutto il film rappresentato la vana lotta degli ideali democratici contro un imbattibile Gattopardo, di fronte a cui anche i liberali coerenti e disinteressati come Carlo Poerio e Sigismondo di Castro­mediano devono poi dichiarare “noi credevamo” (quasi a smentire chi so­stiene che la responsabilità fu di chi non volle mai legittimare la Monar­chia, danneggiando cosi la serietà degli sforzi della classe dirigente liberale), finisca poi per dirci: anche quella che De Sanctis definiva “scuola democratica” era in realtà vittima dell’illusione energetista, di una perversa dialettica dell’illuminismo. Ogni liberazione può avvenire solo nel privato, nella dimensione individuale-universale e non in quella inautentica della partecipazione “civica”, dell’impegno “pubblico”, nelle artefatte dimensio­ni della “società” e delle “istituzioni”. Ma la figura dell’uomo col cardellino non è soltanto declinabile come denuncia conservatrice delle illusioni e distruzioni rivoluzionarie. Essa infatti può rimandare altresì all’idea di una potenzialità liberatrice disseminata nel sociale e nell’individuale, estranea alla tradizione civico-pubblica che va da Dante Alighieri a De Sanctis e invece rappresentata ad esempio dalla letteratura petrarchesca o cortigiana, che di recente uno studioso come Stefano Jossa ha contrapposto alla tradizione “militante” come più autentica depositaria di fermenti rivoluzionari, nel senso di una più marcata rottura rispetto agli interessi della modernità borghese (a cui vanno ricondotti anche i movimenti risorgimentali) con un conseguente ritiro in una sfera privata ed elitaria in cui coltivare i valori di humanitas su cui solo, a suo avviso, può essere edificata una vera democrazia. (6)


L’uomo con il cardellino potrebbe così essere il simbolo di un’idea diversa di cambiamento – ecologista, libertaria, ispirata a un “pensiero meridiano” - che muove dalla realtà dell’uomo e tende a sfuggire dalle secche istituzionalizzanti del potere. E tuttavia ogni percorso di cambiamento collettivo, soprattutto se non vuole restare confinato ad una sfera ristretta ed esclusiva (insegnava Marx che la borghesia è più progressiva delle corti), deve confrontarsi con il problema del potere e delle istituzioni, che peraltro è parte degli enigmi forse irrisolvibili (nella misura in cui il movimento collettivo di cambiamento aspira a cambiare le istituzioni ma in esse poi muore). Nel momento in cui si attiva questo confronto la tradizione repubblicana e “politica” riassume il suo senso, la sua riconnessione dialettico-illuministica, cioè, con i bisogni dell’umano. Si tratta del problema che emerge dalla riflessione stessa di Rousseau, tesa all’estremo fra repubblicanesimo civico e disalienazione individuale-romantica dalle pastoie della civilizzazione.

     Non è quindi possibile contrapporre civismo e dimensione individuale della felicità, res-pubblica e bio-politica, come si vede alle origini classiche stesse della democrazia. Una fusion di realismo naturalistico e impegno mi­litante percorre del resto non a caso tutta la tradizione intellettuale-politica italiana, da sempre maturata a margine e contro il potere e le istituzioni nel sogno di rifarle nuove, fino all’estremo esito del rischio e sacrificio della vita. Di questo parla anche l’ultimo libro di Roberto Esposito, Pensiero vi­vente. (7) Qui l’autore ricostruisce la filosofia italiana all’insegna di un pensiero che, distinguendosi dal logocentrismo dominante in Europa, da Carte­sio in poi, fonda il pensiero sulla sporgenza vitale-corporea. Un pensiero della vita, dunque, che sembrerebbe allontanarsi dal “siam pronti alla morte” imparentato con la macabra volontà di potenza dell’età dell’imperialismo. (8)
E tuttavia in quella prontezza a morire si può anche vedere l’estremo amore per una vita autentica: dalla prigionia di Campanella al martirio di Bruno, dalla povertà di Vico alla militanza di Cuoco, dalla ginestra leopar­diana, al diverso antifascismo di Gramsci fino alla protesta operaista, si è trattato sempre di un pensiero-contro che rivendica per tutti la possibilità (non la sicurezza) di possedere un cardellino e ascoltare il silenzio della natura. L’impegno politico ritrova così il nesso con quella vita e con quell’esistenza che sembrano irrimediabilmente persi nell’istituzionalizzazione del movimento e in un compromesso che non è mediazione ma assorbimento in altro. E non a caso Domenico, il figlio di Salvatore e l’uomo con il cardellino si parlano, si intendono, si aiutano, prima di essere definitivamente separati dagli eventi.

 

NOTE

1 C.Cattaneo, Dell'insurrezione di Milano nel 1848, Milano, Mondadori, 2001.

2 M.Isnenghi, Garibaldi fu ferito. Storia e mito di un rivoluzionario disciplinato, Roma, Donzelli, 2007.

3 Le cinque giornate di  Milano. Cronaca di una rivoluzione (ITA, 2004).

4 Cfr., su ciò, i recenti libri di S.Mastellone: Mazzini scrittore politico in inglese. Democracy in Europe (1840-1855), Firenze, Olschki, 2004; Mazzini e Linton. Una democrazia europea (1845-1855), Firenze, Olschki, 2007; La nascita della democrazia in Europa. Carlyle, Harney, Mill, Engels, Mazzini, Schapper. Addresses, Appeals, Manifestos (1836-1855), Firenze, Olschki, 2009.

5 Cfr.S.Pivato, Il secolo del rumore. Il paesaggio sonoro nel Novecento, Bologna, Il Mulino, 2011.

6 S.Jossa, L'Italia letteraria, Bologna, Il Mulino, 2006.

7 R.Esposito, Pensiero vivente, Torino, Einaudi, 2010.

8 Cfr.A.M.Banti, Sublime madre nostra: la nazione italiana dal risorgimento al fascismo, Roma-Bari, Laterza, 2011 e Id (a cura di), Il Risorgimento nelle testimonianze, nei documenti e nelle immagini; Roma-Bari, Laterza, 2011.

 

 

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