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Il "lato oscuro" del potere

Franca Papa
Professore Ordinario di Filosofia Politica
Facoltà di Scienze Politiche
Università degli Studi di Bari Aldo Moro

 

C’è qualcosa di metastorico nel nucleo originario del “potere”. E’ un dato che si intuisce soltanto e di cui spesso si avverte la consapevolezza anche nella forma delle coscienze meno allenate a “leggere” i processi politici e le dinamiche sociali. Anche chi studia non riesce a sottrarsi all’impressione che questo nucleo, una sorta di “lato oscuro” del potere, si rafforzi e si addensi ad onta dell’irrompere della modernità e del trionfo della ragione.

Il punto più alto della ricostruzione della genesi del nocciolo metafisico della questione del potere è, probabilmente, il capolavoro di Ernst H Kantorowicz, I due corpi del re, pubblicato in edizione americana nel 1957. Attraverso un lavoro di grande ricognizione documentale, Kantorowicz riportava alla luce e validava definitivamente la teoria di un giurista inglese del secolo sedicesimo secondo il quale la persona del Re era dotata, all’atto della sua “unzione” di due corpi: un corpo naturale e mortale e un corpo “politico” incorruttibile ed eterno, destinato a venir trasferito da un sovrano all’altro, nel quale erano condensate le prerogative del potere. Rigorosamente alieno da qualunque “feticismo” delle forme simboliche del potere, Kantorowicz cerca di circoscrivere con grande rigore teorico e straordinaria padronanza delle fonti storiche e documentali il corto-circuito che, ancora fino alle origini del potere moderno, cioè nella struttura nascente degli stati-nazione europei, sovrappone e confonde teologia e politica: “Il sovrano cristiano divenne i cristosmimétes, alla lettera l’«attore», l’«impersonatore» di Cristo che, sul palcoscenico terreno, rappresentava l’immagine vivente del Dio dalla duplice natura, anche riguardo le due nature distinte.” ( E. Kantorowicz, I due corpi del re, Torino,1989,p. 43.)

La questione del corpo doppio o della persona ficta, che nel grande studio di Marc Bloch del 1924, I re taumaturghi era sembrata tutta concentrata intorno al medioevo ed alla sua specifica religiosità intrisa di simbolismo e di superstizione capace di coniare la menzogna di una sorta di “corpo miracoloso” del re, diventa, in Kantorowicz, un vero e proprio paradigma della genesi e della struttura del potere, capace quindi di render conto di meccanismi di legittimazione altrimenti difficilmente comprensibili. Sia Kantorowicz che Bloch, quest’ultimo sacrificando la vita, avevano fatto esperienza di una forma modernissima di inesplicabile legittimazione che aveva fatto emergere con pienezza l’orrore del “lato oscuro del potere”, ma anche e soprattutto la straordinaria resistenza di una particolare forma di feticismo del potere che si dispiega interamente anche nel plebiscitarismo moderno. Il sistema del potere nazista è lo sfondo di un’altra imponente riflessione sui caratteri del potere moderno: Carl Schmitt consegna alla sua opera centrale,Teologia politica (1922) la tesi secondo la quale “le categorie del Politico” derivano da concetti teologici secolarizzati. Se in Bloch il fuoco della ricerca è tutto nell’impegno civile a disvelare con coraggio un “gigantesca notizia falsa” la cui persistenza aveva alimentato paura e pregiudizio intorno al potere e Kantorowicz mantiene rigorosa la sua distanza intellettuale da ogni fascinazione teologica, in Schmitt la tesi del transfert tra teologia e politica ha una precisa funzione antimoderna e di esaltazione dell’autoritarismo politico: “ In una società che non ha più questo coraggio non ci saranno più arcana , né gerarchia, né diplomazia segreta: soprattutto non ci sarà più politica, poiché ogni grande politica implica l’arcanum.” ( C. Schmitt,Cattolicesimo romano e forma politica, Milano 1986,p.64). La teologia politica di Schmitt era “plagiata” quasi letteralmente dall’opera di Donoso Cortés e la sua fortuna recente in Europa ed in Italia non avrebbe alcuna spiegazione senza la comprensione dell’intreccio organico tra il modernismo del sottosviluppo e le suggestioni di carattere simbolistico-feticistiche. In un sistema-mondo pervaso dalla comunicazione attraverso le immagini una rappresentazione del potere che fa leva sugli “arcana” e sui simboli è più efficace e spettacolare almeno quanto il concetto di un furherprinzip inderivabile doveva esser funzionale ad una fase della storia d’ Europa in cui era all’ordine del giorno il tema della “nazionalizzazione delle masse” e non emergeva una capacità di costituzionalizzazione delle masse all’altezza della sfida della società di massa. Lo stesso Weber, dal cui magistero deriva buona parte della politologia contemporanea e non deriva invece certamente in nulla il pensiero di Schmitt ( “dimidiate menander”) sapeva che per costruire la genealogia del “carisma” politico occorreva far ricorso alla sociologia delle grandi religioni monoteiste: ma Weber pensava alle “qualità” del capo politico, ad una specie di virtù eroica che, a differenza di ogni altro individuo, destina alcuni uomini a farsi carico dell’aspirazione alla salvezza di grandi moltitudini.

Della idiozia e della superficialità di tutte le letture parallele Weber-Schmitt, che confondono pacchianamente teoria del “carisma” e teoria del decisionismo politico e che dilagano con grave danno nelle nostre aule universitarie non si dirà mai abbastanza.

Il tema del “nucleo” e della radice del potere è altra cosa: in buona misura questo problema attraversa molti passaggi cruciali della storia della filosofia politica. Sono dedicati a questo tema i percorsi stringenti attraverso i quali Machiavelli si interroga, ne Il Principe, sulle ragioni della mancata fortuna del Duca Valentino : “Chi, adunque, indica nel suo principato nuovo assicurarsi de’nimici, guadagnarsi degli amici, vincere o per forza o per fraude, farsi amare o temere da’ popoli, seguire e reverire da’ soldati, spegnere quelli che ti possono o debbono offendere… non può trovare e’ più freschi esempi che le azioni di costui.” ( Il Principe, Firenze 1997, p.79) Come prendere il potere e tenerlo stabilmente appare, in Machiavelli, la modalità attraverso la quale si pone la questione dell’essenza stessa del potere e dell’attitudine dell’uomo al potere le cui forme possono e debbono essere diverse. Quando Machiavelli giunge alla conclusione della necessità di Virtù e Fortuna di fatto ha rinunciato a collocare il tema nel campo teorico che ad esso compete e sposta il focus della sua indagine sul terreno della storia politica italiana, decide di ragionare per exempla perché è il tema della storia politica italiana quello che gli sta a cuore.

Anche Guicciardini, nonostante il lucido cinismo sui caratteri della natura umana, si accosta appena a questo tema: “ La grandezza di stato è desiderata universalmente, perché tutto il bene che è in lei apparisce di fuora, el male sta drento occulto; el quale chi vedessi non avrebbe forse tanta voglia, perché è piena sanza dubio di pericoli, di sospetti e di mille travagli e fatiche; ma quello che per avventura la fa desiderabile anche agli animi purgati è lo appetito che ognuno ha di essere superiore agli altri uomini…” (Ricordi, Milano 1997, p.204-205 ) Così, Guicciardini fa emergere anche quella doppiezza che nasconde il male nell’involucro esterno della grandezza, il male necessario per “superare” gli altri nell’ascesa verso il livello più alto della condizione sociale: la teoria della gemina persona è già in questa prima anfibolia, di esterno e interno, di bene e male che sembra connaturata al potere. E tuttavia “il male”, qui come altrove, non designa altro che l’ignoto, un punto opaco, un nucleo non visibile.

La più limpida rappresentazione nella teoria politica della persona ficta è sicuramente la famosa incisione sul frontespizio della prima edizione inglese del Leviatano di Thomas Hobbes e il motto tratto dal Libro di Giobbe che la sovrasta “Non est potestas super terram quae comparetur ei”. In questa celebre immagine il corpo artificiale del Re, la cui effigie coronata rispetta la iconografia tradizionale e che impugna la spada e lo scettro, è densa di significati politici. Il corpo si compone, dal collo alla cintura di piccole figure umane addossate l’una all’altra e, nella sua parte inferiore dalla distesa di terre e borghi che compongono il territorio della nazione. La straordinaria potenza dell’immagine e del testo biblico che Schmitt fraintende clamorosamente ( Scritti su Thomas Hobbes, Milano 1986, p.73 e sgg.) corrispondono al principio di una moderna teoria dello stato assoluto cioè e legibus solutus e non un’icona della forza o della decisione come vorrebbe poter credere Schmitt. L’antropomorfismo dell’incisione condensa una grande ricchezza di simboli che si riferiscono alla complessità dello stato come vero corpo politico: il popolo-nazione e il territorio-nazione lo compongo organicamente, sono il corpo politico del Re che è insieme, per le fattezze, un corpo fisico e materiale ma anche un corpo artificiale. Hobbes descrive questo dato con estrema chiarezza nell’incipit del Leviatano: “La natura, cioè l’arte, con la quale Iddio ha fatto e governa il mondo, come in molte altre cose, anche in questa è imitata dall’arte dell’uomo, che può costruire un animale artificiale. Infatti se la vita non è che moto di membra…perché non possiamo dire che tutti gli automata - macchine, che si muovono da sé, con molle e ruote, come un orologio - hanno una vita artificiale?...poiché con l’arte è creato quel gran Leviatano, chiamato uno stato (in latinocivitas) il quale non è che un uomo artificiale, benché di maggiore statura e forza del naturale, per la protezione e difesa del quale fu concepito.” ( Leviatano, Bari 1974, p3 ) In Hobbes, quindi, l’anfibolia si scioglie.

Il corpo artificiale è la seconda natura, la macchina politica che insiste sul corpo del Re. Esso non è forza minacciosa o mostruoso animale , come vorrebbe Schmitt, ma struttura politica e forza politica che viene dalla complessa composizione di popolo e di terra della nazione. Ma ciò che offusca la veduta di Schmitt è soprattutto la citazione biblica che, nel libro di Giobbe, designa la potenza del Leviatano. Anche su questo punto Hobbes è limpido: “Finora ho mostrato la natura dell’uomo…insieme col gran poter del suo governante, il quale io ho paragonato al Leviatano…ma poiché esso è mortale e soggetto a decadenza, come tutte le altre creature terrene…così io nei capitoli seguenti parlerò delle sue infermità e delle cause della sua mortalità, e di quelle leggi di natura, che egli è obbligato ad obbedire.” (Ivi, p.285)

La teoria dei due corpi del Re è, dunque, anche in Hobbes. Essa è, già dalle sue origini, straordinariamente moderna e deriva, nel Leviatano, proprio dalla concezione contrattualistica del potere. Il corpo-macchina si forma da un patto tra gli individui che depongono la loro naturale conflittualità per paura della morte. Si passa così da uno stadio di società naturale ad uno stadio di società politica. Tutto questo non può che avvenire per il tramite della persona del sovrano che è lo strumento della conservazione del pactum subiectionis. Ma allora, in quel punto, quello della stipula del patto e della consegna dell’uso legittimo della forza, la persona del sovrano cessa di essere un mero corpo naturale e diviene un corpo politico, dotato di vita autonoma e diversa da quello naturale.

La costituzione moderna dello spazio politico si struttura tutta dentro questo modello della esistenza duplice: su un lato la vita biologica, sociale, economica e sull’altro la politica, l’istituzione, l’artificio. E quest’anfibolia è la sua forza originaria: una distanza che consente di placare e governare la violenza delle guerre civili e di religione, di gestire i conflitti scatenati dalle passioni personali e civili. Lo Stato nazione nasce “per far guerra alla guerra” proprio costruendo una “seconda natura” più impersonale e discorsiva della prima, dove lo spazio dell'interlocuzione tra i singoli è mediato e interpretato nello spazio artificiale e politico. La “terzietà” della politica e la sua capacità di mediazione è la sua forza.

Ma l’anfibolia è anche doppiezza, inganno, costruzione di senso autonomo e diverso rispetto alla vita, autonomia e autoreferenzialità del linguaggio e dell’agire politico e produce la costruzione di uno spazio di metarealtà che si autoimplementa e riproduce oltre e contro la costituzione materiale della società.

Quando irrompe la filosofia di Cartesio nello scenario europeo, la potenza decostruttiva del suo paradigma infrange gli ultimi vincoli che costringevano l’agire politico a declinarsi con principi e valori, se pure quelli che la religione prescriveva, o almeno con una interpretazione del mondo e della sua storia. L’autonomia della ragione diviene l’unico criterio accettabile e la ragion di stato è “ragione speciale”. Ogni altro oggetto è investito dal dubbio e destituito di fondamento. Il primo effetto che “ Il Metodo” sortisce è quello di moltiplicare l’isolamento e la “diversità” dell’agire politico, enfatizzare la libertà che la potenza del pensiero umano incoraggia e sostiene.

Il tentativo di una lettura politica del teatro di Shakespeare viene di qui, dalla forte suggestione di questi temi nella filosofia politica. Le storie dei re sono straordinarie rappresentazioni della esperienza dei due corpi del Re e del forte contenuto tragico che segna quell’esperienza alle origini del moderno. Ma in Shakespeare c’è anche un’altra fortissima tentazione che va raccolta e valorizzata: le storie dei re sono un tentativo di comporre una, se pur parziale, “fenomenologia” del potere. Questo singolare “catalogo” dei Re , in special modo quello offerto dai “Drammi storici” coglie in pieno i due lati del potere. C’è in Shakespeare il tema del “lato oscuro” del potere o, se si vuole, del suo contenuto enigmatico e misterioso. Quasi sempre il luogo in cui prende forma una vocazione ed un destino che legano al potere un personaggio sia, esso ad esempio in Macbeth o Riccardo III, è un punto opaco dell’interiorità dei personaggi, uno spazio della volontà di potenza, che non viene mai alla luce della consapevolezza e tuttavia questo spazio, appena viene posto in movimento, libera una straordinaria energia che consente di oltrepassare ogni ostacolo.

Questa specie di mistero che circonda la nascita del destino di un Re si segnala, nella trama shakespiriana attraverso le profezie, i prodigi, i presagi che accompagnano l’origine di ogni vocazione al potere: e tuttavia questi “segni” non sono altro che occasioni, pretesti, stimoli. In queste storie la profezia si autoavvera; è la forza della soggettività che la realizza ad ogni costo. Come bene sottolinea J.Kott, l’energia criminale dei personaggi trova nella realizzazione del destino uno stimolo vigoroso: “Ma ogni passo verso il potere continua ad essere contrassegnato dal delitto, dalla violenza e dall’inganno. Così che quando il nuovo principe si trova ormai sulle soglie del trono si tira dietro a sua volta una catena di delitti altrettanto lunga quanto quella di colui che fino a poco prima era il legittimo sovrano.” (Shakespeare nostro contemporaneo, Milano 1982, p.8)

Ed è questo il percorso che segnala che in un determinato momento la vicenda di un uomo comune ha incontrato ed incrociato la eterna sequenza della storia dei Re e il suo uniforme svolgimento attraverso l’inganno, la menzogna e la morte. Scrive ancora J.Kott: “ La storia feudale è una grande scala sulla quale sfila ininterrottamente il corteo regale. Ogni gradino, ogni passo verso l’alto avvicina al trono oppure lo consolida.” (Ivi, p.12) Ed è come se il personaggio si trovasse di fronte un’altra vita, una vita “storica” profondamente diversa da quella che originariamente gli era stata assegnata, nella quale si invera il destino di essere Re e che prescrive di accettare l’inganno, il tradimento e la morte come modalità specifiche o strumenti necessari per l’esercizio del potere. L’ esperienza della scissione, della “doppiezza” dell’esistenza è generale e tipica della coscienza moderna. Il grande tema della “anfibolia” di privato e pubblico che si conserva ed anzi si consolida atraverso l’illuminismo ( Kant docet) fino all’età contemporanea, non è che una forma nobile e generalissima per nominare una intensità crescente di immersione nella menzogna che costituisce la strategia di sopravvivenza in un sistema di relazioni in cui gli individui non hanno più alcun fine condiviso. In questa generale forma di esperienza della modernità la scissione della vita del Re, l’amputazione che separa il corpo mortale del re e tutto ciò che nel corpo è inscritto, la memoria, il vissuto, gli affetti, la formazione morale e sentimentale, lo separa appunto ma non lo toglie, è la struttura del dramma.

E’ molto evidente il rilievo di questo tratto peculiare della modernità in tutta l’opera e perfino nella biografia di Shakespeare anche secondo Stephen Greenblatt: “ Le opere di Shakespeare offrono esempi di doppiezza e forse anche di qualcos’altro: in certi momentiAmleto ne è l’esempio più grande – Shakespeare sembra allo stesso tempo cattolico, protestante e profondamente scettico nei confronti di entrambe le fedi.” ( Vita, arte e passioni di William Shakespeare, capocomico, Torino 2005, p.99 )

E tuttavia alla rappresentazione dei due corpi del Re egli giunge attraverso l’osservazione e l’intuizione, proprio a a partire da quella sua speciale ambizione di “capocomico” di rappresentare ciò che mai era stato rappresentato a proposito delle storie di Re. Spesso Machiavelli è stato evocato per decifrare la nuova e spregiudicata modalità delle pratiche del potere che Shakespeare osserva e descrive: “ il machiavellismo, nell’accezione contemporanea e in quella generale, fino a oggi, è l’insegnamento di tecniche di conquista senza scrupoli e di mantenimento del potere politico. Per guadagnarsi la corona, Riccardo di Gloucester aspira perfino a superare Machiavelli in raffinatezza e cinismo.” ( E. Krippendorff, Roma 2005, p.129)

Ma il “machiavellismo” è una categoria della prassi, un modello dell’agire strategico. La “scissione” è una categoria dello spirito moderno, essa è “ontologicamente” costitutiva del potere del Re e, dunque, essa è un “vizio d’origine” del potere moderno.

Questo lavoro è un esercizio di lettura “politica” del teatro shakespiriano sul percorso della definizione dei modelli di sovranità alle origini del moderno.

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