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31 Gennaio 2015

L’immaginario e il politico. Sociologia della cultura elettronica e dell’estetica contemporanea


di Vincenzo Susca

Iconocrazia 07/2015 - "Potenza dell'immaginario"




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Per tutti questi anni, pensò il dottor Superb,
abbiamo adorato un fantoccio. Un essere inerte e privo di vita.
Philip K. Dick, I simulacri

 

Tecnica, magia e religione erano in principio intrecciate in un nodo indissolubile, cosicché il più alto grado di esperienza mistica corrispondeva naturalmente al livello più fine di agire tecnologico e di arte occulta. Il totemismo, pratica di religione tribale tramite la quale un gruppo, per mezzo di una frizione estatica, entra in congiunzione con la divinità e la natura che lo circonda, rappresenta la figura emblematica della coincidenza tra i tre fattori. Il processo di civilizzazione ha inferto in seguito uno strappo radicale a tale paradigma. In modo particolare, la modernità occidentale e la sua tecnologia caratterizzante, la stampa, hanno generato un processo di frammentazione tra parole e cose, corpo e spirito, sacro e profano, agente in direzione di un disincanto del mondo e quindi di una progressiva razionalizzazione dell’esistenza (Weber, 1995).

L’effervescenza religiosa viene così estirpata dal corpo della tribù e istituzionalizzata nella trascendenza dei testi sacri (la Bibbia è il primo libro stampato e con essa si inaugura l’onda lunga della modernità occidentale); la magia relegata negli inferi della vita quotidiana e stigmatizzata come religione delle masse o nebbia della coscienza; la tecnologia posta come mezzo del dominio dell’uomo sulla natura, strumento atto a risolvere problemi e attrezzo utile ad accentuare la separazione nei confronti dell’altro. Nascono così gli stati-nazione e i loro confini invalicabili, si diffondono le scienze con i loro saperi e metodi prescrittivi inaccessibili ai più e si impone sul mondo la casta elitaria dei custodi del verbo (politica, religione, tecnica, sapere, arte).

Il punto di massimo splendore di quest’epoca tuttavia porta con sé, come l’ultimo bouquet dei fuochi d’artificio, anche il suo tramonto, l’annuncio della sua catastrofe. Come ha notato Marshall McLuhan già negli anni 60, la diffusione sociale dei nuovi media elettronici si pone come l’agente di deflagrazione della cultura moderna e del suo ordine politico, sociale, identitario ed economico (1967, 1997). Per quanto tale invenzione provenga dai laboratori tecnoscientifici elaborati già a partire dal XVIII e XIX secolo, essa si dirige, nel suo uso e consumo, dunque nell’appropriazione sociale di cui è fatta oggetto, contro le intenzioni dei suoi creatori – come il mostro creato dal dottor Frankenstein per esaudire i suoi sogni di gloria.

La manipolazione sociale dell’innovazione tecnologica si presenta quindi come la principale scintilla che origina la catena degli effetti perversi di quella che Guy Debord ha chiamato la “società dello spettacolo” (2002). Basti a tal proposito soffermarsi sulla parabola di Internet per comprendere il senso di ciò che si sostiene: inventato a scopi militari e accademici, esso è trasformato nel bacino dove si sperimentano forme di collaborazione, di connessione e di intelligenza sensibile dotate di una forte connotazione antimoderna (non-verticali, non-razionali, non-ideologiche, separate dalle élite, impertinenti nei confronti della legge istituita e disgiuntive rispetto all’ordine delle nazioni). In esso la sfera pubblica si sbriciola in tanti addensamenti affettivi e cognitivi a carattere neotribale, ognuno dei quali dotato di un proprio ordine etico che travalica la morale universale, i suoi strumenti e i suoi paradigmi. È per questo che la maggior parte dei cybernauti viola la legge del copyright spontaneamente, senza scrupoli, sacrificando i propri doveri di cittadinanza all’edonismo e al piacere di congiungersi al gruppo tramite informazioni, simboli, suoni e affetti condivisi. La stessa vocazione sollecita l’impiegato di turno a ridurre surrettiziamente il proprio tempo di lavoro approfittando del proprio schermo digitale per chattare su Skype, per scambiare foto su Flickr.com, per scambiarsi emoticon su Facebook o per produrre-consumare scene porno su xhamster.

La tecnologia si manifesta così come l’arnese tramite cui affinare e socializzare le radicate tattiche di furbizia popolare, tutti quei metodi minuscoli tramite cui il popolo si è sempre difeso dallo sguardo aggressivo e pedante del potere. Il passaggio al quale assistiamo assume tuttavia i tratti di una vera e propria mutazione antropologica, in cui ciò che prima si esprimeva in termini di “resistenza” si traduce oggi in “creazione” e “ricreazione”. Nel momento in cui i nuovi media consentono da una parte la produzione del linguaggio e dell’ordine simbolico a partire dalla loro grammatica di base, dall’altra la connessione e la condivisione di sensibilità prima troppo esigue e sparpagliate per manifestarsi in modo operativo e visibile, la mappa del potere e il volto della tecnologia si trasfigurano. Per questa ragione la tecnologia smette di essere l’arte del logos, lo strumento della logica, per farsi “tecnomagia”, totem attorno al quale le tribù postmoderne esperiscono l’estasi mistica, che è al tempo stesso pura vibrazione attorno al proprio corpo comunitario e fuga dall’io verso qualcosa di più grande di sé e del sé. Il legame che scaturisce da questa condizione non si poggia più su un contratto razionale e astratto – il “contratto sociale” – ma su un patto in cui l’emozione, gli affetti e i simboli condivisi si pongono come le nuove matrici dell’essere-insieme, come i nuovi presupposti di ogni fusione collettiva.

Non potremmo comprendere con sufficiente pertinenza le chiacchiere insensate delle chat line, i fiumi di emoji e di battute che scorrono tra un telefonino e l’altro, le identificazioni multiple nei confronti dei nuovi miti della cultura spettacolare, senza intravedere alle loro spalle la pulsione erotica che muove il fondo della vita sociale, il desiderio ardente di congiungersi in modo olistico all’altro da sé. In questo scenario, la parola connessione non è altro che il culto tramite cui si manifesta la vocazione di ogni comunità nascente a saldarsi in uno stato di comunione per mezzo di una comunicazione. Qui il contenuto passa in secondo piano rispetto all’effervescenza sociale, la quale, come ben sappiamo rispetto al cosiddetto web 2.0, si pone come il cuore stesso del medium. Per questa ragione i new media tendono a caratterizzarsi non come vettori di contenuto, ma come agili ambienti connettivi, ovvero come il mondo che abitiamo (Abruzzese, 2009). Possiamo così sostenere, come vedremo meglio in seguito, che “il corpo è il messaggio” dei nuovi media elettronici. McLuhan è stato il primo ad anticipare – senza usare questo termine – le derive tecnomagiche delle nostre società, nel momento stesso in cui affermava che “nella nostra epoca elettronica, vestiamo tutta l’umanità come la nostra pelle” (1997).

Il nostro tessuto è in effetti la superficie, il protagonista inconscio, di un doppio processo che, per quanto appaia come invisibile – e proprio per il fatto che non riusciamo a scorgerlo e tanto meno a capirlo – ha degli effetti dirompenti sulle trame della nostra cultura, a partire dall’ambito della conoscenza sino ad arrivare al rapporto con il potere, passando naturalmente per i rapporti interpersonali. Senza saperlo, stiamo divenendo tutti dei cyborg; meglio ancora, come sostiene Andy Clark “we are natural born cyborg”. Avviene così che da una parte estendiamo il nostro sistema nervoso centrale al di fuori del nostro cervello – nelle memorie digitali, negli schermi audiovisivi, nei depositi di informazioni on line… – e dall’altra lo riassorbiamo in modo espanso nella nostra pelle tramite i dispositivi portatili (telefonini, palmari, lettori mp3), le microtecnologie e quelli che vengono chiamati i wereable computer (computer indossabili). Ciò accade in modo al tempo stesso naturale e inconscio: sappiamo come ripescare i dettagli della nostra esistenza su un palmare ma ignoriamo il processo tramite cui ciò è reso possibile.

Una delle distinzioni tradizionali tra la tecnologia e la magia risiede in ciò: nella prima vi è una proporzione congrua tra cause ed effetti, tra lo sforzo prodotto e il risultato ottenuto. Nell’era della tecnomagia viene invece disarticolato il principio meccanico e funzionale che ha funto da perno all’agire tecnologico. Gli esiti di un’azione non hanno niente a che vedere con quest’ultima e sono frutto – perlomeno questa è la percezione che ne abbiamo – di un mistero, elaborati nell’ambito dell’invisibile. Basti pensare a tal proposito alle reti senza fili Wi-fi. È il computer o il telefonino a comunicarci se esse sono accessibili, e quindi se possiamo disporre appieno della nostra memoria, attualizzare le nostre reti di relazioni e “abitare” le identità elettroniche in cui ci siamo investiti. Nel momento in cui non ne veniamo a capo, imploriamo il destino o ci rivolgiamo ai nuovi maghi: i nerd. Questi ultimi sono i depositari di un sapere occulto che serve ad iniziarci al nuovo mondo, quello in cui, per parafrasare Shakespeare, “siamo fatti della stessa stoffa dei nostri sogni”.

Smiley di Watchmen, 1986, USA.

Smiley di Watchmen, 1986, USA.

In quanto maestri di un universo ai più oscuro, calati nell’ombra delle proprie stanze e dei propri garage, i giovani esperti di nuove tecnologie sono accompagnati nell’immaginario da figure come quella dei “pirati” e dei “barbari”, giacché, come questi ultimi, essi sono portatori di una conoscenza-altra rispetto a quella fissata nelle istituzioni del sapere e del potere moderno. Ogni comunità virtuale, rete di blogger, tribù urbana, al di là del proprio agire tecnologico e degli strumenti di cui si avvale, serba in sé una storia, una verità, uno stile di vita e un immaginario a se stanti, dei mondi che fanno “società” attraversando i confini e i paradigmi sinora imperanti. Si tratta di paesaggi sociali ad alta densità simbolica ed emotiva in cui la religiosità, la magia e la tecnologia coincidono.

A differenza delle fantasmagorie che hanno caratterizzato l’avvento dell’epoca cinematografica e televisiva, siamo in questo caso al cospetto di universi dove i fantasmi possono essere toccati, dove l’aspetto tattile dell’esistenza è tirato in causa insieme con l’immaginazione. Nelle sale del cinematografo, il pubblico, come in uno stato di allucinazione, si proiettava sullo schermo e si lasciava trasportare, secondo l’interpretazione di Edgar Morin nel suo Il cinema o l’uomo immaginario (1957), nei corpi delle star. Nel cyberspazio ci estendiamo invece in maschere che noi stessi abbiamo generato. Per questo William Gibson, nel suo mitico romanzo Neuromante, descriveva la vita nei territori elettronici come una “allucinazione consensuale” (2000).

Sulla scia della stessa tendenza, sempre più adolescenti elaborano il proprio blog senza avvalersi di aiuti esterni. Come ha ben mostrato Henry Jenkins nel suo libro Cultura convergente (2007), molti giovani studenti americani utilizzano la storia di Harry Potter come base per elaborare altrettanti universi magici di cui essi sono contemporaneamente i protagonisti e i nuovi maghi. Potremmo d’altra parte estendere il discorso della magificazione del mondo al di là della sua declinazione tecnomagica. Notiamo quindi l’intensificarsi del ricorso all’omeopatia, ai fiori di Bach, all’astrologia, alle tecniche spirituali della New age, così come il successo di film come Il Signore degli Anelli, Ratatouille e lo stesso Harry Potter. A ben vedere il successo di queste narrazioni è direttamente proporzionale alla crisi delle religioni, delle ideologie storiche e del riduzionismo scientifico. Una fiammata di neomisticismo divampa così negli scenari sociali, adombrando le premesse più logiche e razionali della cosiddetta “società della conoscenza”. Erik Davis suggerisce pertanto, rivedendo le teorie più alla moda sul rapporto tra cultura e tecnologia, che “Oggi c’è così tanta pressione sull’informazione – la parola, l’informazione, l’essenza stessa – che essa scricchiola e scoppia di energia, attraendo a sé mitologie, metafisiche e frammenti di magia arcana” (2001: 28).

Oltre ad essere tutti cyborg, possiamo sostenere altresì che ci trasformiamo inconsapevolmente in tanti piccoli maghi di un mondo reincantato (Maffesoli, 2007), in cui – è bene dirlo per sgombrare il campo da una possibile lettura utopistica della nostra argomentazione – diveniamo al tempo stesso soggetti e oggetti di inedite possessioni, idolatrie e nuovi sacrifici. Gli altari del consumo e della comunicazione si pongono quindi come sostituti di ciò che fino ad oggi è stata la religione prima e la politica poi, ma ciò non implica necessariamente l’apparizione di un mondo nitido e armonioso. Potremmo anzi dire che la cultura postmoderna contribuisce, nel bene e nel male, ad integrare l’ombra – la parte maledetta di cui argomenta Georges Bataille (2003) – che per molti anni i sistemi socioculturali hanno marginalizzato e rifiutato.

Ciò che appare in modo inedito è tuttavia la natura del sacrificio in questione: le tribù contemporanee danzano attorno ai nuovi totem pensando al proprio benessere e in ossequio alla propria religione, senza aderire a nessuna trascendenza o a nessun progetto che non rientri nell’universo affettivo e immaginario del gruppo. In questo scenario i nuovi riti iniziatici non sono né scritti né prescritti, facendo piuttosto parte del sapere incorporato della comunità. I loro esiti sono quindi ignoti, difficili da cogliere per chi risiede all’esterno dell’aura che avvolge la tribù. Per essa, la tecnologia non si presenta più come una mera panoplia di strumenti tramite cui risolvere problemi, assolvere funzioni o adattare l’ambiente, assumendo invece le sembianze di una “tecnomagia” atta a congiungere soggettività sociali attorno a vibrazioni emotive, a piaceri info-estetici e a pulsioni ludiche (poco importa che lo strumento di turno si incarni in un I-pod o nell’ultimo stivale dark di tendenza). Come conferma Pierre Musso nel suo libro L’ideologia delle reti (2007), la tecnica è il totem della società postmoderna, il nuovo oggetto di culto e il suo riferimento simbolico di base. Navigare in questo ambiente equivale pertanto a porre se stessi come taumaturghi di un paesaggio di cui la tecnica è solo la porta di ingresso. Un portale dove l’immaginario si fa oggettivo e pressa sul mondo affinché l’universo fisico entri in congiunzione e assuma le sembianze di quello invisibile.

Quali sono le conseguenze politiche di siffatto immaginario e delle pratiche che lo accompagnano?

In effetti, ormai da molto tempo siamo assillati da un allarme: la democrazia occidentale è in crisi. I segni di questo stato si manifestano sotto molteplici sfaccettature: disaffezione nei confronti della politica, diserzione dei grandi riti del mondo moderno, indifferenza nei confronti delle idee-guida su cui si sono adagiati i paradigmi istituzionali contemporanei, traduzione in spettacolo di tutto ciò che fino a pochi decenni fa costituiva l’anima della vita pubblica (dibattiti elettorali, simboli politici, piani programmatici). Le voci dalle quali zampilla in modo lancinante il grido preoccupato della saturazione del modello politico contemporaneo sono perlopiù quelle di chi è stato sino ad oggi il custode dello status quo: le élite che compongono l’intellighenzia (politici, intellettuali, imprenditori, artisti, giornalisti…). È infatti evidente che più il sistema perde l’appeal del suo pubblico e più le sue gerarchie e i suoi privilegi, così come i suoi rappresentanti, tendono ad essere delegittimati.

La natura, le forme e l’esito di questa diaspora volontaria dalla democrazia  possono essere colti in modo preciso alle spalle del grande avvicendamento che sta avendo luogo nel seno del sistema comunicativo occidentale, ed in particolare nell’avvento dei nuovi media connettivi, globali, interattivi e in tempo reale, i quali stanno rapidamente assumendo il ruolo che la televisione ha avuto nel corso degli ultimi 50 anni. Quest’ultima ha da una parte rafforzato il modello politico della rappresentanza, e dall’altra lo ha in qualche modo corrotto in favore della logica della personalizzazione e della spettacolarizzazione. Si può oggi sostenere che la cultura televisiva ha sostenuto e probabilmente condotto sino ai suoi limiti la democrazia rappresentativa di massa. Cosa succede a quest’ultima nell’epoca delle reti, del web 2.0 e dei media di coordinamento? Quale è il destino di questa grande mitologia – o come scrive Luciano Canfora “ideologia” (2006) – del mondo occidentale e moderno di fronte al dispiegamento fluido e nomadico di tutte le manifestazioni tecnosociali che puntellano i nostri paesaggi contemporanei?

Come hanno ben mostrato pensatori come Habermas, Durkheim e McLuhan, il modo in cui si struttura un sistema sociale e di potere dipende da come si elaborano le trame più ordinarie e banali della vita collettiva. La configurazione dell’essere-insieme, la condivisione di un immaginario e la vibrazione comune attorno a determinate passioni e simboli sono i supporti su cui si plasma e legittima ogni sistema politico e culturale. Che succede quindi allorché la società non si organizza più attorno al libro e neanche allo schermo televisivo, optando invece per YouTube, i blog, Facebook, WhatsApp o le reti costituite dalle fitte trame di Sms, chat o post? Qual è la forma di potere che si affaccia su uno scenario contraddistinto dalla proliferazione di tribù, passioni ludiche, mitologie elaborate dal basso, capacità cognitive tanto più fini quanto più predisposte orizzontalmente e tramite la conversazione?

Piuttosto che stigmatizzare l’atteggiamento disimpegnato o elusivo rivolto da ognuna di queste forme tecnosociali alle istituzioni politico-culturali e ai loro paradigmi, dovremmo forse chiederci il perché dell’obsolescenza di questi ultimi, le ragioni che li portano a mostrarsi come incoerenti rispetto all’immaginario collettivo, e infine svelare quali sono i modelli politici e culturali schiusi dai nuovi flussi comunicativi e dalle forme di socialità emergenti negli assembramenti urbani, nelle effervescenze musicali così come nel continuo sciamare tra informazioni e affetti di ognuna delle “bolle” che si sovrappongono alla sfera pubblica istituita.

Se l’aggettivo “pirata” o “delinquente” riservato a coloro i quali violano le norme sul copyright, condividono illegalmente informazioni, suoni e video, serve ormai non più a definire una minoranza ma a dipingere il ritratto della maggior parte dei cybernauti, ciò non indica tanto che la società è mossa da un istinto barbarico o incivile, quanto che le norme vigenti non le corrispondono più. Nel momento in cui la conoscenza non passa più per i canali verticali e pedagogici tradizionali, bensì si elabora connettivamente (de Kerckhove, 1999) e si scambia nelle varie Wikipedia, siti di approfondimento o reti di blog tematici, piuttosto che rimpiangere i vettori che svaniscono, siamo chiamati a prendere atto di una nuova forma di sapere che non è necessariamente più stupida o fragile di quella che soppianta. Il dato secondo cui la creatività e la socialità si manifestano oggi sotto forma di passioni e di simboli svincolati dagli imperativi categorici della politica e dell’economia moderne, quindi al di là dell’individualismo, della proprietà privata e degli scambi commerciali, lascia trasparire non la semplice degenerazione della società, quanto una sua diversa configurazione, animata da un afflato transpolitico (Susca, de Kerckhove, 2008).

La democrazia appare alle nuove soggettività che si affacciano sulla scena come  priva di appeal per una serie di ragioni – e di passioni – pertinenti al loro modo di essere, di comunicare e di abitare. In primo luogo essa si riferisce a un demos intangibile e ignoto in cui non si riconoscono, incorporeo rispetto alla natura sensibile dei raggruppamenti neocomunitari e dei loro continui corpo a corpo. A problematizzare ulteriormente la situazione contribuisce il dato secondo cui, a ben vedere, tale demos non ha mai governato: il termine democrazia è ormai percepito nella coscienza comune come un’antifrasi che indica il potere di pochi su molti. Questo modello politico riposa su ideali astratti e proiettati nel lungo termine che non mobilitano la partecipazione di gruppi e persone sempre più saldati a simboli e passioni che possono consumarsi e comunicarsi nella prospettiva concreta del carpe diem, qui e ora.

I confini degli stati-nazione – le grandi case delle nostre democrazie –  risultano rigidi e arbitrari rispetto agli impulsi nomadici che animano i flussi culturali della postmodernità. Questi ultimi si manifestano come tante bolle transitorie che di volta in volta decostruiscono e ricostruiscono i contorni della sfera pubblica istituita, nel loro andirivieni tra localismi e globalismi, tra pelle e schermo. È evidente che in un siffatto quadro la legge e il contratto sociale si palesano come cristallizzazioni forzate di un ordine universale e astratto incoerente rispetto alle molteplici declinazioni in cui i gruppi, le tribù e i network si esibiscono di volta in volta. La loro prospettiva è ormai transnazionale, il territorio che abitano integra nelle trame urbane le connessioni elettroniche e contribuisce così a disarticolare i limiti, le identità e i poteri precostituiti.

Le culture digitali – epifenomeno dello spirito postmoderno – non sono più alla ricerca di una rappresentanza, né appaiono disposte a delegare ad altri le decisioni che concernono il proprio ordine di vita. La riduzione della distanza che intercorre tra spettatore e schermo, rivelata dallo sviluppo dell’industria culturale degli ultimi 100 anni – dal cinema alla televisione sino ai display dei dispositivi portatili, palmari e dei wearable computer – è in tal senso istruttiva e si offre come metafora della brama di protagonismo che sempre più puntella lo scenario sociale. Il cybernauta non si lascia più rappresentare, ma si “presenta” nello spazio pubblico con la sua capacità autonoma di manipolazione del linguaggio, non più in quanto individuo isolato e separato, ma con alle spalle una comunità costituita da affinità elettive che scavalcano il tempo, lo spazio e le identità geopolitiche o ideologiche tradizionali.

Ogni rete di blogger, tribù urbana, comunità virtuale, flash mob o smart mob genera una “comunicrazia”, la quale si manifesta come la forma di potere liquida della postmodernità plasmata in ogni situazione in cui una comunità vibra all’unisono in uno stato di comunione attorno a una comunicazione. Tale configurazione vale e funziona nell’istante e nel luogo in cui si realizza una tale frizione, per esempio quando gli iniziati di una chat dedicata a True Detective o al BDSM si ritrovano, oppure allorché un gruppo di ultras supporta la propria squadra nel solito versante della Curva Sud allo Stadio Olimpico di Roma. In questi casi la legge tout court cede il passo alla legge del gruppo, che è tanto più stringente quanto più non scritta e incorporata come un non-detto nella comunità stessa.

È così che in maniera spontanea e tendenzialmente inconsapevole tali gruppi, trasportati dall’estasi del proprio incontro, incantati dalla mitologia che li stringe in un abbraccio intimo, violano la norma giuridica statale sovrapponendole la propria. La proliferazione di comunicrazie non ha più a che vedere con minoranze disobbedienti o rivoluzionarie, ma diviene sempre più un fenomeno che si capillarizza in tutto il corpo sociale, in tutti noi.

Ognuno di noi – lo voglia o meno, lo sappia o no – tende ormai ad appartenere e oscilla tra molteplici tribù comunicratiche, di cui può essere di volta in volta più o meno responsabile, più o meno ai vertici della gerarchia. Perché ognuno di questi aggregati è contraddistinto dalla presenza di figure carismatiche, di “maestri” che custodiscono meglio degli altri partecipanti il segreto del gruppo. La differenza nei confronti delle abituali forme di potere e di clan è che i vertici di queste bolle sono considerati come legittimi nella misura in cui garantiscono il coordinamento trasparente e orizzontale dei “fratelli”, lasciando circolare liberamente le informazioni e rispettando lo spirito o la religione che cementa il gruppo. Questo tipo di figura connettiva è quindi costantemente revocabile, così come costretta a confrontarsi con tutte le altre dimensioni comunicratiche presenti sullo scenario. Il guru della rete di blogger consacrata al rap può così al tempo stesso essere un semplice discepolo della community dedicata allo sviluppo sostenibile, un membro come tanti di Instagram e l’ultimo arrivato in Twitter.

La potenza di ogni comunicrazia nascente deriva dalla forte solidarietà che fonde il gruppo, il quale si manifesta come un’intelligenza connettiva ed emotiva caratterizzata dalla condivisione di simboli, informazioni e affetti che insieme delineano l’aura della tribù, una sorta di placenta in cui ogni partecipante è immerso. È a tal proposito istruttivo rinvenire la caratteristica precipua che segna la storia dell’aura come percorso verso la sua progressiva svaporazione. Essa dapprima circonda l’intero corpo, poi solo la testa, infine si sposta sopra la testa, per poi sfumare. L’aura costituiva il sigillo del santo e godeva di un valore terapeutico: il contatto con il santo – il fatto stesso di toccarlo – conferiva al fedele salute. L’aura è quindi la membrana tattile, seppur immateriale, che si frappone fra la persona e il mondo. Oggi, sotto forma di connessioni elettroniche, essa si presenta in una veste e con degli effetti inediti: la possibilità di essere tracciati e rintracciabili. Siamo immersi in un ambiente di dati e informazioni dove la nostra azione, in un processo di reversibilità costante, contemporaneamente fa e subisce il mondo. Le antiche teorie dei maghi sull’aura parlano di fili che possono essere rintracciati e tirati, esattamente come avviene oggi con l’aura elettronica nell’era di Internet.

L’aura elettronica si pone così come la rete di fili che lega, in modo sempre più tattile, ogni membro all’altro e alle proiezioni del suo immaginario. In tal modo comunicare equivale sempre di più da una parte ad immaginare e astrarre, dall’altra a toccare con mano. I rapporti di interazione che hanno luogo in ognuno di questi ambienti sono animati da un sentimento di estasi mistica dove la comunicazione si celebra sotto forma di comunione, in cui l’io si perde in qualcosa di più grande di sé che è al tempo stesso il gruppo e il feticcio che lo muove (per questo la rete si accompagna anche alla riemersione di svariate forme di fanatismo e di fondamentalismo).

Ciò fa sì che la sovversione maturata negli interstizi della vita quotidiana, all’ombra della politica o nell’undernet, tragga la sua linfa vitale dalla dimensione simbolica e affettiva ancor prima che politica. Da qui viene trasformata in rovine la spessa corazza della modernità. Le manifestazioni apparentemente più banali o frivole come Chatroulette, Candy Crash, i giochi di ruolo, gli scherzi e le buffonate dei nuovi Joker liberano nell’etere i tanti fantasmi che compongono l’immaginario collettivo, e premono affinché esso plasmi la realtà fisica a sua immagine e somiglianza. Una siffatta inversione di polarità è la causa e l’effetto di un ambiente dove l’equilibrio tra la struttura e la sovrastruttura, o per usare termini meno desueti tra la dimensione fisico e materiale e quella immaginaria e immateriale, è alterato. Ciò ci impone di accantonare la lettura rigidamente materialistica della società, prescegliendo invece paradigmi che sappiano dar conto in termini teorici dell’insorgenza dell’immaginario, del ludico e del sensibile nell’articolazione della vita quotidiana (Bergson, 2006; Durand, 1992; Duvignaud, 1984, 1986). Si tratta di raccogliere, quindi, la sfida epistemologica della complessità tramite una lettura di tipo comprensivo dei confronti dei fenomeni tecnosociali emergenti (Maffesoli, 2005; Morin, 1990; Watier, 2000).

Le reti sostengono quindi una riconfigurazione debole – come direbbe Gianni Vattimo – orizzontale e multicentrata del potere, in cui il cybernauta e le comunità nelle quali si investe tendono a divenire le figure protagoniste. Abbiamo raggiunto il paradossale stadio morfologico dell’industria culturale in cui essa, dopo un lungo processo di smaterializzazione, miniaturizzazione e personalizzazione, traspare nel suo pubblico, si incarna nei suoi utenti. La sua parabola ha consentito di spostare i riflettori dalla marcia regale della storia alle piccole e molteplici storie evenemenziali, di rimettere al centro della scena la poesia senza scrittura della vita quotidiana, così come il suo aspetto più tragico. Walter Benjamin ha genialmente indicato nel 1936 che la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte innesca il processo del “divenire arte del pubblico”. In modo analogo, oggi la riproducibilità digitale del politico sollecita il divenire transpolitico del pubblico.

 

Riferimenti bibliografici

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Vincenzo Susca

Maître de conférences in Sociologia alla Université Paul-Valéry di Montpellier. Direttore editoriale dei "Cahiers européens de l’imaginaire", CNRS éditions, Parigi.

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