Grecia 2011 – Italia oggi: corsi e ricorsi storici. La democrazia in Europa al tempo del fiscal compact.
di Gian Domenico Nicola Miolli Iconocrazia 16/2019 - "Atlante di Geopolitica", SaggiA seguito dell’approvazione del Trattato che adotta una Costituzione per l’Unione Europea da parte della Conferenza intergovernativa e la firma da parte dei Capi di Stato, si aprì una fase “domestica” del processo di costituzionalizzazione dell’Unione Europea, a seguito dell’avvio delle procedure di ratifica da parte dei Parlamenti nazionali. È stato senza dubbio questo, 2004-2020, il periodo per riflettere sulle forme con cui gli Stati membri abbiano manifestato la loro “vocazione europeista”. Le limitazioni di sovranità previste dall’articolo 11 della Costituzione italiana sono sufficienti a dare copertura costituzionale al nuovo trattato europeo configuratosi (Lisbona 2007)? O non è forse giunta l’ora di nuove diagnosi politiche più analitiche e pervicaci rispetto alle precedenti››.1 Un primo importante esempio di trattato oggetto di dibattito istituzionale oltre che di confronto europeo è il Fiscal Compact2, sul quale è opportuno riflettere e muovere delle considerazioni di protocollo oltre che di merito: dove si manifesta il fine di specie di un trattato comunitario, poi successivamente inserito in Costituzione, con obiettivi di bilancio palesemente neoliberisti che espongono lo Stato adottante ad un processo di macelleria sociale? Il Parlamento italiano nell’estate 2012 ha approvato, pressoché all’unanimità, una legge di revisione dell’art. 81 della Costituzione intitolata “Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale”. Salvo qualche limitato accenno, il progetto di riforma è stato praticamente assente dalla discussione politica – e, con le dovute eccezioni, dal dibattito scientifico – lo si è incentrato piuttosto sul processo di risanamento finanziario e di contenimento del deficit e del debito pubblico. Inoltre è stato adottato un tracciato di faticosa attuazione per via di legislazione ordinaria. Dell’introduzione del c.d. principio del pareggio di bilancio in Costituzione si parla con pressoché esclusivo riferimento agli impegni assunti dall’Italia in sede Comunitaria, al fine di garantire una ritrovata immagine di credibilità del sistema del bilancio pubblico e del debito italiano al cospetto dei mercati finanziari. In questa sede occorrerà inquadrare il significato normativo nel contesto del c.d. Fiscal compact, trattato internazionale sottoscritto, e le relative conseguenze, al di fuori del contesto dei trattati su cui si fonda l’Unione europea. Sembra comunque doverosa ad opinione dello scrivente una rapida premessa d’ordine e di merito keynesiana: le osservazioni critiche che seguiranno devono essere assunte quali naturali obiezioni alla non più indispensabile necessità sistemica di garantire una finanza pubblica in equilibrio ed un debito, cosiddetto, “sostenibile”, a fronte di una disoccupazione automontata che viaggia ormai spedita a due cifre percentuali. In secondo luogo deve essere, altresì, chiaro che i contenuti della riforma costituzionale approvati sono direttamente funzionali agli scopi ora richiamati. La revisione dell’art. 81 della Costituzione italiana così come il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria hanno lo scopo di definire, quindi, regole di contenimento delle politiche economiche pubbliche, “a regime”, non implicando alcuna conseguenza immediata sul piano delle politiche di risanamento finanziario in corso nei vari Stati europei, se non sull’ineffabile piano della “psicologia dei mercati” priva di alcun senso scientifico, economico ed assente da ogni pagina di manuale econometrico senza alcuna evidenza empirica a sostegno, ma propalata da buona parte della stampa nazionale che sostiene politiche economiche ormai destoricizzate e superate (obiettivi anti-inflazionistici).
Il progetto di revisione costituzionale introduce nel secondo comma dell’art. 81 della Costituzione italiana la seguente disposizione: “Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali”. Il successivo art. 5, comma 1, lett. d) del progetto di riforma, qualifica tali “eventi eccezionali” come: “gravi recessioni economiche, crisi finanziarie e gravi calamità naturali”. La portata normativa di questa disposizione pare introdurre, quindi, un divieto di indebitamento – salvi i casi, alle condizioni e con le procedure aggravate previste dal testo della legge di riforma – e misura in modo ben più pervasivo l’obbligo di garantire l’ “equilibrio tra le entrate e le spese” del bilancio dello Stato con cui si apre invece il primo comma del nuovo art.81. L’ultimo comma della nuova disposizione rimette, comunque, ad una futura legge costituzionale la definizione della normativa di principio nel cui contesto una successiva legge, approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, dovrà provvedere a dare attuazione alla riforma. La legge di revisione costituzionale valuta, inoltre, altre tre importanti considerazioni:
- la riconduzione della materia “armonizzazione dei bilanci pubblici” alla competenza esclusiva dello Stato3;
- una forte revisione dell’art. 119 Cost. con l’introduzione di ulteriori e gravi limiti all’autonomia finanziaria di Regioni4 ed enti locali;
- un ulteriore limite al ricorso all’indebitamento di tutti gli enti di autonomia con l’impegno di questi di concorrere, comunque, “alla sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni”5.
Emerge in più rilevanti commenti6 la dettagliata analisi critica del progetto di legge di revisione costituzionale, dunque mi limiterò qui soltanto a sollevare alcuni interrogativi, in parte frutto della acritica stesura del testo della riforma. Ciò appare, del resto, come evidente conseguenza della conclamata urgenza con cui si è dato avvio al progetto di revisione costituzionale, sotto la forsennata pressione delle istituzioni europee, dei governi di alcuni Stati membri dell’UE, delle istituzioni finanziarie internazionali e dei mercati, nella grave crisi di affidabilità del debito pubblico italiano durante i concitati mesi dello scorso autunno. Ben maggiori problemi interpretativi porrà, invece, nella prassi applicativa la formula “ricorso all’indebitamento”7 di cui al secondo comma. È un riferimento specifico ai saldi di bilancio? Se sì, con quale declinazione? È possibile convenire di ridurne semanticamente il senso quale mero sinonimo di deficit ai sensi dei trattati europei e del Patto di stabilità e crescita? Dobbiamo ritenere che, a regime, la Costituzione italiana vieti il ricorso a soglie anche minime di deficit pubblico, se non agli specifici fini e con le procedure di cui al nuovo secondo comma dell’art. 81? Il necessario ricorso alla maggioranza assoluta affinché, al fine di considerare gli effetti del ciclo economico o al verificarsi di eventi eccezionali, si possa procedere alla elaborazione di politiche di spesa pubblica anche se minimamente idonee a determinare un deficit di bilancio, inoltre, sottrae la disponibilità di questo fondamentale strumento di politica economica a qualunque maggioranza politica, a qualunque governo – salvi i benefici di un occasionale sistema elettorale ad ampio effetto maggioritario – implicando il necessario coinvolgimento di parte delle opposizioni anche solo per sfruttare gli effetti di una congiuntura economica particolarmente favorevole, a meno di non ritenere di voler riservare l’utilizzo di questo strumento a soli governi tecnici, o comunque sostenuti da maggioranze parlamentari bipartisan. Per tacere dei drammatici effetti che la riforma ha prodotto sull’autonomia finanziaria di Regioni ed enti locali, sembra quindi consolidarsi nel testo della Costituzione la scelta (di politica contingente) di eliminare dall’orizzonte la favorevole elaborazione di politiche espansive anche in fasi congiunturali positive. Senza potermi, qui, peraltro impegnare in una disamina delle differenti teorie economiche in relazione agli effetti e ai possibili rimedi dell’intervento pubblico nell’economia nelle fasi congiunturali avverse pongo in esame l’appello, al Presidente emerito degli Stati Uniti Barack Obama, svolto da alcuni premi Nobel per l’economia contro l’inserimento dell’obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione per via dei gravi rischi di recessione e di contrazione del PIL. Gli effetti di una delle possibili dottrine economiche in materia di ruolo dello Stato e della spesa pubblica in economia rimane a quanto pare ignorata dalla governance politica attualmente al Governo delle principali liberal-democrazie occidentali. Facciamo un salto a casa dei cugini d’oltralpe che da “sforatori” seriali di vincoli del 3% di Maastrichtiana memoria credono di poterci dare lezioni: come è noto la legge di revisione della Costituzione francese non ha compiuto il suo iter e la procedura è attualmente bloccata in attesa delle future decisioni del Presidente Macròn. Guardando alla penisola iberica, il testo del nuovo art. 135 della Costituzione spagnola non si spinge a vietare acriticamente il ricorso all’indebitamento, né a fissare una soglia percentuale di deficit pubblico, indicando piuttosto l’obbligo di non “incurrir en un déficit estructural que supere los márgenes establecidos, en su caso, por la Unión Europea para sus Estados Miembros” rinviando quindi, per la determinazione in dettaglio dei limiti di deficit strutturale ammissibile, ad una successiva legge organica. Questa formula consente, ad un tempo, un margine di manovra per le politiche espansive nelle fasi in cui la stessa Unione europea dovesse consentirle, ponendo contemporaneamente la Spagna in una posizione di pari dignità con gli altri Stati membri. L’altro fronte del processo di riforma della disciplina dei bilanci pubblici e degli strumenti di contenimento del debito è quindi rappresentato, come accennato, dalla stipula del c.d. Fiscal compact, il Trattato sulla Stabilità, sul Coordinamento e sulla Governance nell’Unione economica e monetaria. Si tratta, come è noto, di un trattato internazionale stipulato al di fuori dell’ordinamento giuridico dell’UE la cui entrata in vigore (indicata nel 1° gennaio 2013) è subordinata alla ratifica, non più di tutti, ma di soli 12 Stati contraenti8. Il sistema di procedure atte a contenere e correggere l’indebitamento dei singoli Stati aderenti all’Euro con l’abbattimento strutturale del debito pubblico eccedente la soglia massima del 60% rispetto al PIL è articolato in una serie di potestà, competenze e strumenti giuridici vincolanti, per la cui declinazione si rinvia direttamente al testo dell’articolato9. Nel quadro di quanto già esposto con riferimento alle criticità del processo di revisione costituzionale oggetto d’esame in Italia e proprio in considerazione della natura ad esso complementare di fatto assunta dal Trattato – seppur successivo all’avvio del richiamato procedimento di revisione costituzionale10 – è opportuno indicare alcuni sintomi del superamento del principio di eguaglianza tra gli Stati membri dell’UE e della pari dignità formale, oltre che sostanziale, dei relativi sistemi di governo. Si rileva la circostanza che appare in rottura del limite della “condizione di parità con gli altri Stati”, al quale, l’art. 11 della Costituzione italiana subordina le limitazioni di sovranità necessarie alla costruzione dell’ordinamento comunitario. L’art. 3 del Trattato fissa un limite percentuale di indebitamento sostenibile con una soglia positiva dello 0,5%. È ovvio che fasi congiunturali avverse e obiettivi di abbattimento del livello di debito pubblico possono generare la necessità, giuridicamente vincolata già in applicazione del Patto di stabilità e crescita, di prevedere un bilancio pubblico addirittura in regime di avanzo primario. Ma alternativamente è possibile che la congiuntura suggerisca interventi di politica economica in regime di seppur minimo disavanzo, cosa appunto consentita dal Trattato, ma impedita dal nuovo art. 81 della Costituzione italiana. L’indicazione di un valore di riferimento positivo di un eventuale disavanzo – pur sempre sostenibile – nel testo del Fiscal compact mette a disposizione di tutti gli Stati dell’area Euro11 uno strumento di intervento nell’economia a sostegno della crescita, di cui l’Italia intende invece privarsi – almeno a voler prendere sul serio quanto previsto dal nuovo secondo comma dell’art 81 Cost. – rinunciando ad un importantissimo elemento negoziale in sede di istituzioni europee a difesa delle proprie politiche pubbliche; e rinunciando altresì ad un fondamentale strumento di politica economica a sostegno della crescita dell’economia reale utile anche al fine di correggere la sproporzione tra debito pubblico e Prodotto interno lordo. In termini di confronto sul piano della crescita economica ciò significherà avere meno risorse disponibili rispetto agli altri Stati membri direttamente concorrenti. A ciò deve aggiungersi, proprio sul piano della eguaglianza formale, che l’art. 3, comma 1 lett. d) del Trattato, consente agli Stati membri che abbiano un debito pubblico inferiore alla soglia del 60% del PIL di spingere legittimamente il proprio deficit strutturale fino all’1%, con ciò aumentando anche giuridicamente il divario tra gli strumenti idonei a sostenere la crescita economica a disposizione degli Stati virtuosi rispetto a quelli a disposizione degli altri Stati; e consentendo un più forte differenziale di progresso economico e sociale che renderà ancora più significativo il tasso di diseguaglianza territoriale nel mercato interno. Diseguaglianza non compensata tra l’altro da adeguate politiche di spesa pubblica a sostegno delle aree depresse, che negli Stati unitari possono correggere i rischi di creazione di colonie interne a fronte di tassi di sviluppo economico difformi tra le diverse aree del Paese.
Ulteriore elemento di disparità tra gli Stati aderenti è relativo a quanto espresso dall’art. 4 del Trattato, che impone agli Stati il cui ammontare di debito pubblico ecceda il limite del 60% del PIL, di adottare politiche di risanamento che ne riducano il peso in ragione del differenziale tra effettivo ammontare del debito e il 60% del PIL per un ventesimo ogni anno a partire dal 201312. La fotografia dei punti di partenza dei diversi Stati all’atto dell’entrata in vigore del Trattato determinerà, quindi, la disparità nelle chances di crescita in ragione della quantità di risorse che i diversi Stati dovranno matematicamente destinare all’abbattimento del debito. Con ciò si certifica la disparità nei diritti dei singoli Stati alla promozione di politiche anticongiunturali a sostegno della crescita, incrementandone la diseguaglianza economica e incentivando la differenza del tasso di sviluppo a vantaggio di alcuni Stati, ma non di altri, i quali essendo ultimi saranno giuridicamente costretti a rinunciare a politiche di sostegno dell’economia per un mero meccanismo aritmetico, pur laddove eventualmente gravati da un debito, alto sì, ma sostenibile (segnatamente quello dei paesi PIIGS). Con ciò non soltanto cristallizzando un’opzione di politica economica tra le tante, e rendendola giuridicamente vincolante, ma sancendo altresì una disparità nel diritto alla crescita economica tra i diversi Stati membri13. Ma è con riferimento alla distribuzione degli strumenti giuridici, atti a correggere eventuali scostamenti da tali obblighi, che il Trattato è più radicalmente portatore di un diritto diseguale tra i diversi Stati membri dell’Unione economica e dell’Euro. Con la stipula di questo accordo gli Stati hanno sottoscritto, infatti, una clausola compromissoria ai sensi dell’art. 273 del Trattato sul Funzionamento dell’UE, che consente agli Stati membri di rimettere alla Corte di Giustizia la competenza a giudicare, con efficacia obbligatoria e vincolante, “qualsiasi controversia tra Stati membri in connessione con l’oggetto dei trattati, quando tale controversia le venga sottoposta in virtù di un compromesso”14. Dal che si deduce, in primo luogo, che l’efficacia giuridica delle disposizioni del Trattato sulla Stabilità e degli ulteriori obblighi che ne deriveranno in caso di assunzione di impegni correttivi di situazioni di disavanzo o di debito pubblico eccessivi, si risolve in vincoli formalmente giustiziabili dinanzi alla Corte di Giustizia. Ma in aggiunta a ciò, e oltre le procedure di sorveglianza multilaterale reciproca tra gli Stati collegialmente gestite nelle sedi istituzionali dell’UE per come disciplinate dai Trattati, dal Patto di Stabilità e Crescita e dalla relativa normativa di attuazione, l’art. 8 del Fiscal Compact attribuisce poteri di sorveglianza e di denuncia alla Corte di Giustizia degli Stati eventualmente inadempienti in capo ai singoli Stati contraenti – starei per dire ad alcuni di questi, se non ad uno in particolare – Compresa la potestà di ulteriore deferimento, in seconda battuta, alla Corte di quegli Stati che manchino di dare corretta esecuzione alle sentenze in materia di violazione del Fiscal compact della stessa Corte di Giustizia, fino a provocare l’adozione delle sanzioni di carattere finanziario previste dal Trattato stesso15.
Salvi gli effetti di eventuali affievolimenti del portato normativo del Trattato in sede di applicazione concreta, pur sempre suscettibile di negoziato politico nei concreti rapporti tra gli Stati membri anche in conseguenza della effettiva situazione di equilibrio in cui possano trovarsi i bilanci pubblici degli stessi Stati virtuosi16, e salva altresì la concreta determinazione che dell’attuale significato del nuovo art. 81 della Costituzione italiana verrà articolata nella legge costituzionale e nella legge ordinaria di relativa attuazione, sembra che il nuovo regime giuridico dei bilanci pubblici presenti plurime e diffuse incongruenze nei rapporti tra ordinamento italiano e ordinamento dell’UE, oltre alla paventata rottura della parità di condizioni che si va sempre più formalizzando nei reciproci rapporti tra i diversi Stati aderenti all’Unione economica e monetaria, almeno nella più recente fase del processo di integrazione17.
1Alfonso Celotto-Tania Groppi “Primautè e controlimiti nel progetto di trattato costituzionale” – Quaderni Costituzionali – Il Mulino;
2Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria, Bruxelles, 2 marzo 2012;
3Ad oggi non è più possibile in quanto costituisce competenza concorrente, art. 117 Cost.
4 La più grave apparendo la necessità di considerarne l’equilibrio di bilancio come riferito al “complesso degli enti di ciascuna Regione”, con tutte le conseguenze relative all’obbligo di tali enti di concorrere ad assicurare insieme allo Stato l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti all’ordinamento dell’UE.
5Art. 5, comma 2, lett. b) e c) del progetto di legge di revisione costituzionale.
6 Mi limiterei a citare, in questa sede, i documentati e competente commenti a prima lettura di A. Brancasi, L’introduzione del principio del c.d. pareggio di bilancio: un esempio di revisione affrettata della Costituzione, in http://www.forumcostituzionale.it/site/images/stories/pdf/documenti_forum/temi_attualita/riforme/0003_brancasi.pdf, 10 gennaio 2012 e di E. Dickmann, Le regole della governance economica europea e il pareggio di bilancio in Costituzione, in Federalismi.it, 4/2012.
7 Sul punto, esemplarmente, A. Brancasi, op.ult.cit.
8 Art. 14.
9 Dettagliatamente sul punto E. Dickmann, Le regole della governance economia europea, cit.
10 Anche se l’obbligo di traduzione dei nuovi vincoli di bilancio decisi in sede europea in atti normativi statali vincolanti era già presente nel c.d. “Patto Europlus”, adottato a Bruxelles in sede di Consiglio europeo il 25 marzo del 2011. Sul punto F. Coronidi, La costituzionalizzazione, cit., spec. 2 ss.; E. Dickmann, op.ult.cit.
11 Così come previsto anche dal nuovo art. 135 della Costituzione spagnola.
12 Quest’obbligo era peraltro già presente in precedenti atti vincolanti dell’UE, v. infatti i richiami di cui all’art. 4 del Trattato.
13 Devo questa osservazione alle riflessioni a suo tempo dedicate dal Prof. Emerito Giuseppe Guarino, già all’analoga disparità nella distribuzione degli impegni di risanamento finanziario gravanti sui singoli Stati in ottemperanza agli obblighi di cui al Trattato di Maastricht, incautamente sottoscritto dal Governo italiano malgrado non modulasse nel tempo tali obblighi di risanamento finanziario per i diversi Stati a seconda dell’ammontare di risorse effettivamente necessarie allo scopo. Con ciò gettando le basi per un regime di crescita economica diseguale nelle diverse regioni del territorio del mercato comune. L’Italia, quale Paese maggiormente indebitato in proporzione al proprio PIL, è stata così costretta a distrarre quantità di risorse immensamente superiori a quelle impegnate dagli altri partner europei, risorse altrimenti utilizzabili, almeno in parte, al sostegno della crescita economica. Per una recente rielaborazione di tali assunti si v. G. Guarino, Ratificare Lisbona? Firenze, 2008, spec. 134 ss.
14 Art. 8, comma 3 del Fiscal compact.
15 Art. 8, comma 2.
16 Il riferimento va al noto precedente conflitto tra Consiglio Ecofin e Commissione europea poi deciso da CGCE in causa C-27/04, sentenza del 13 luglio 2004. Per la ricostruzione della vicenda rinvio, tra gli altri, al commento di P. Diman, M. Salerno, Sentenza Ecofin: gli equilibri della Corte tra tensioni politiche, Costituzione economica europea e soluzioni procedurali, in Dir.pubbl.comp.eu., 2004, IV, 1842 ss. 17 Per tacere delle importantissime conseguenze che si determineranno sulla sopravvivenza di un’effettiva residua autonomia finanziaria di Regioni ed enti locali, tema la cui importanza è testimoniata, con riferimento all’ordinamento spagnolo, proprio dalle osservazioni contenute nel citato saggio di F.A. García Prats, Stability Pact, cit.
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